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Miti e Leggende

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  1. Isabel
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    Miti & Leggende


    Pochi altri luoghi al mondo possono vantare come la Calabria una storia altrettanto ricca di miti e leggende.Il mito è una narrazione simbolica di carattere sacrale che, in tempi e culture diverse, ha come personaggi divinità, eroi, antenati, mostri o animali e insieme con il rito costituisce un momento fondamentale dell'esperienza religiosa e tende a soddisfare il bisogno di fornire una spiegazione a fenomeni naturali o a problemi religiosi.La parola mito deriva dal greco mythos che significa parola, discorso, racconto.



    La Fata dei Campi

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    C’era una volta… ma forse c’è ancora, sotto altre spoglie, una bellissima giovane che girava attraverso le nostre contrade. Nessuno sapeva da dove venisse senza mai farsi annunciare. Era presente in ogni paese, nei villaggi di montagna o nelle borgate di campagna, sui campi quando il grano era biondo e maturo e appariva come un tratto di mare giallo, che aveva onde di luce. Era presente quando le ragazze cantavano felici nel tempo della vendemmia; o quando la neve copriva di bianco la terra, e gli alberi e le case apparivano trasformati in zucchero filato. I vecchi contadini ed anche mia nonna, che contadina non era, la chiamavano Fata dei Campi. Alcune volte appariva inghirlandata, con i capelli inanellati e sciolti sulle spalle in una cascata d’oro.Aveva un vestito di candida neve, il manto celeste trapunto di stelle, le scarpine di seta verde: sembrava una creatura discesa dal cielo. Altre volte appariva sotto le spoglie di giovane guerriero: la sua corazza, sfolgorante di luce, aveva maglie che tintinnavano ad ogni movimento; altre volte assumeva fattezze ed abbigliamenti bizzarri e originali. Ognuno sperava incontrarla, pensando quanto era prodiga nel dispensare grazie. La sognavano i bambini nella quiete del loro riposo; l’invocavano le mamme, intente a cullare i piccoli, rendendola protagonista nelle ninne nanne, cantate come una preghiera. La Fata dei Campi si prestava a curare i malati, a confortare gli afflitti che vivevano le ore del giorno e della notte nel dolore; sosteneva e assisteva gli uomini ingenui e pacifici. Molte volte, nelle sembianze di valoroso guerriero, umiliava i superbi; altre volte, esaltava le creature mansuete e spaurite. Anche se era rinomata come Fata dei Campi, colpiva con castighi e pene le persone insensibili verso le sofferenze altrui. Era desiderata e invocata da tutti come lo spirito del bene, ma concedeva la gioia della sua presenza divina soltanto agli innocenti, ai puri di cuore, ai giusti, ai quali elargiva i tesori delle sue grazie. I più vecchi narravano di sue apparizioni improvvise e di prodigi. Una sera, al chiaro di luna, una contadinella, semplice e pura come una colomba, stava sdraiata su di un cumulo di paglia nell’aia di un podere. Estasiata ascoltava il canto di un usignuolo, quando avvertì un sibilo e un fruscìo, e dagli sterpi della vicina boscaglia venne fuori un mostruoso serpente, con gli occhi di fuoco, che si diresse minaccioso contro di lei. La ragazza, atterrita, lanciò un grido e svenne. Nel riprendere i sensi, si trovò accanto una giovane vestita di bianco, bella come un arcangelo, sfavillante di luce divina: le accarezzava il viso e la confortava amorevolmente. Io sono la Fata dei Campi - le disse - e ti ho sottratta alle insidie del mostro. Sii prudente d’ora in poi; sii buona e abbi fede in me, nella mia protezione e nel mio aiuto. Montata in groppa a un focoso cavallo, sparì attraversando la fitta boscaglia per prestare soccorso ad altre creature bisognose. Da quel giorno il popolo ancora crede che la Fata dei Campi percorra benefica le nostre contrade, ma non la chiamano più col nome che usavano i vecchi pastori della Sila o i pescatori di Montauro. La Fata dei Campi ha ora altri nomi, più dolci, che hanno il suono familiare di materna presenza: Maria degli Angeli, Maria delle Grazie, Maria della Luce, Maria dell’Aiuto, Maria di Porto Salvo.

    La leggenda del Morzello

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    Molti, ma molti anni, fa viveva a Catanzaro una giovane donna di nome Chicchina; era nata in un abituro arredato di miseria, ma era cresciuta bella quasi per vendicarsi della stessa povertà, che l’aveva mal nutrita per anni. Non aveva incontrato un principe azzurro, come la fortunata Cenerentola: aveva trovato un giovane marito, che soltanto saltuariamente lavorava da quando in città avevano chiuso i telai che producevano antichi damaschi. La giovane moglie lo aiutava allora a raccogliere centinaia di sacchi di foglie di gelso, che servivano per nutrire i bachi da seta che ogni famiglia allevava per il fabbisogno delle filande. Avevano trovato casa nel rione Tùvulu, dal nome dell’antico burrone.L’abitazione era costituita da un solo vano a piano terra, con una sola finestra; in esso c’era un letto matrimoniale con sopra l’immagine della Madonna, messa lì ad alimentare la fede e la speranza della giovane coppia. Era quello il quartiere dei poveri, ma di quei poveri che vestivano e mangiavano da poveri, e i bambini avevano il pallore dei poveri e i piedi nudi, come tutti i poveri del mondo. Lì c’era, e c’è ancora, la fontana di Tuvuleddhu. In quel punto sorgeva un agglomerato di pagliai, capanne a forma conica con scheletro di pali e intessitura di frasche e canne. D’estate erano utilizzati per la vendita dei fichidindia, resi freschi dall’acqua di quella sorgente; i Catanzaresi attraversavano la città e trovavano in quel luogo benefico sollievo alla calura. Poi un giorno il marito si allontanò da casa per trovare altrove lavoro; lo sposò, però, la morte che gli approntò un letto di terra che reggeva un verde cipresso. Chicchina rimase vedova, vestita con neri stracci, come vestono i poveri; si ritrovò con due figli da sfamare con erbe spontanee, cicorie, cardi e borragini, e qualche tozzo di pane che la provvidenza le procurava, perché nelle preghiere aveva sempre richiesto quel pane quotidiano che Dio sa dare. Quel tugurio, senza il suo uomo, ora le offriva freddo e fame; e la fame, impietosa, aveva bussato alla sua porta in compagnia della morte. In quell’abituro, nero come la notte, non entrava neppure un pallido raggio di sole, e sui vetri appannati dell’unica finestra la pioggia cadendo accompagnava la fine del giorno. Ora la sera per Chicchina era fredda come il ghiaccio, saziava la sua anima affamata col pane della preghiera; stava ad aspettare un passo che non tornava in quella casa, o il rumore di una porta che non si apriva. Sui muri, intanto, la muffa aveva dipinto volti di orchi e megere, bocche squartate dal continuo sbadigliare: immagini di terrore e smarrimento. Mancava poco al Natale e Chicchina, come altre volte, fu chiamata a ripulire il grande cortile, dove venivano macellati gli animali da carne per i bisogni dei Catanzaresi. Portate via le bestie scuoiate e sezionate, rimanevano ammucchiate in un angolo le pelli, che un addetto recapitava alla conceria. Alla donna toccava ripulire lo spiazzo colorato di sangue; poi in una grande cesta raccoglieva le frattaglie scartate, quelle non idonee alla vendita: tutte le budella, dall’intestino crasso a quello cieco, fino al retto. Era sua incombenza trasportarle nella discarica della Fiumarella, ma quella volta con quel carico sostò sull’uscio della sua stamberga. Si liberò dal peso della cesta per bere un sorso d’acqua; si lasciò andare sul gradino di casa per riprendere fiato; diede uno sguardo ai ragazzi, che riposavano ancora e che, a sera, avrebbero seguito, per le strade della città, le zampogne che suonavano la novena di Natale.Chicchina guardò la cesta colma di frattaglie: “Perché - si domandò - i ricchi mangiano la carne e rifiutano soltanto le parti di ciò che sta dentro le bestie? Forse per il contenuto che le budella ancora custodiscono, e devono essere sepolte nella discarica tra le immondizie…?”

    L'incantato del presepe
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    In paese le feste di Natale procuravano un’arcana quiete nell’anima; in ogni casa si contavano con ansia i giorni che mancavano alla Notte Santa. In quella del piccolo Leo tornava da lontano il padre, ad allietare la festa con la sua presenza e a costruire, come tutti gli anni, il presepe per il figliolo. Tornava dalla Svizzera, dove il freddo era pungente, ma il cielo era pieno di stelle, come le città piene di luci. In poco tempo il presepe era pronto e, come sempre, Maria discendeva dall’alto e riprendeva il suo posto accanto al Bambino Gesù; dall’altra parte c’era, inginocchiato e appoggiato al suo bastone da viaggio, san Giuseppe, assorto nel grande mistero.Leo vedeva nel suo presepe tornare i re Magi dall’Oriente, gli angeli che cantavano, i pastori con le zampogne e tanta altra gente davanti alla grotta, una folla che offriva doni al Redentore.Sembrava un vero paese: Leo si fermava a guardare tutte quelle figurine e gli angeli, che danzavano felici come bambini leggeri ad inseguire per i campi un aquilone. Anche in quello, come in tutti i presepi, c’era la figurina dell’incantato. L’incantato era un povero infelice, che non aveva nulla e nulla portava al Bambinello. S’era fermato accanto alla grotta, non si muoveva e non faceva niente: stava lì a braccia aperte, a bocca spalancata, a guardare estasiato. Intorno, un affollarsi di pastori offerenti e Gesù che sorrideva sulla paglia; mentre, in ogni dove, la gente era diventata buona come ogni anno, perché era Natale; i poveri, però, erano rimasti ancora poveri e mentre Gesù nasceva migliaia di bambini morivano per fame. Dopo le feste il padre di Leo, disfatto il presepe, era tornato in terra straniera per fittare ancora le proprie braccia per un tozzo di pane. Il ragazzo, rimasto con la madre, era riuscito a trafugare da quel presepe la fugurina dell’incantato, nascondendola accanto al letto. Prima di pigliar sonno ogni sera la rimirava, la interrogava e l’incantato restava sempre muto a fissarlo con le braccia aperte, gli occhi fissi e la bocca spalancata. Ma una notte un lampo attraversò la finestra, poi un tuono spaurì Leo che si mise a tremare. La mamma, stanca per le fatiche del giorno, non avvertì nulla; il piccolo aveva tra le mani la figurina dell’incantato e lo sentì balbettare qualcosa: le braccia e gli occhi acquistarono movimento. L’incantato, per miracolo, cominciò a raccontare le storie che non aveva mai voluto raccontare a nessuno, lui che aveva capito tutto, che conosceva il miracolo della nascita del Redentore.Gli parlò del presepe, della storia dei pastori e dei macellai, degli arrotini e dei fornai, dei pescivendoli, e delle donne che, con una brocca in testa, andavano al pozzo per attingere acqua. Gli raccontò delle case con dietro le palme e delle città con le bianche cupole; gli parlò delle fatiche degli uomini, perché i ragazzi oggi non conoscono nulla delle culture contadine, nulla dei lavori antichi, nulla delle fiabe. Gli parlò di Gesù che nacque in una stalla, degli animali che lo adoravano prima degli uomini. Leo lo ascoltava incantato: gli occhi fissi, la bocca spalancata e le braccia aperte, come la figurina del suo presepe. L’incantato gli raccontò, come nessuno seppe mai raccontare, di quel Dio che si era adagiato in una mangiatoia sotto carne di un bimbo, nudo e povero come tutti i bambini della terra. Gli parlò di occhi che non guardano al mondo dei senza pane, dei senza speranza, dei senza tetto e dei senza amore. Gli parlò di quel Bambino che fra gli uomini cercò i semplici, e tra i semplici i fanciulli. Leo incrociò le braccia sul petto e si addormentò dolcemente. La figurina dell’incantato restò sul comodino, di nuovo muto, la bocca spalancata e le braccia aperte; forse felice di aver raccontato a un bambino ciò che non volle mai raccontare a nessuno in duemila anni di storia.

    La Fata Morgana

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    Se in una calda giornata estiva, passeggiando sullo splendido lungomare reggino che D'Annunzio definì "il più bel chilometro d'Italia", vi capitasse di vedere paesi e palazzi della costa siciliana deformarsi e specchiarsi tra cielo e mare, vicini a tal punto da distinguerne gli abitanti, non dovete impressionarvi. Siete solo vittime di un incantesimo. E' la Fata Morgana, un fenomeno ottico simile a un miraggio che si può osservare dalla costa calabra quando aria e mare sono immobili. La leggenda racconta che anche Ruggero I d'Altavilla fu incantato dal sortilegio. Per indurlo a conquistare la Sicilia, con un colpo di bacchetta magica la Fata Morgana gliela fece apparire così vicina da poterla toccare con mano. Ma il re normanno, sdegnato, rifiutò di prendere l'isola con l'inganno. E così, senza l'aiuto della Fata, impiegò trent'anni per conquistarla.La costa siciliana, vista da quella calabrese, sembra distare pochi metri. Si possono distinguere molto bene le case, le auto e addirittura le persone che camminano nelle strade di Messina. Il tutto avviene quando sulla superficie del mare, minuscole goccioline di acqua rarefatta, fanno da lente di ingrandimento. Il fenomeno prende nome dalla Fata Morgana della mitologia celtica.Era agosto, il cielo e il mare erano senza un alito di vento, e una leggera nebbiolina velava l'orizzonte, durante le invasioni barbariche dopo avere attraversato tutta la penisola, un'orda di conquistatori giunse alle rive del mare Jonio nella città di Reggio Calabria e si trovò davanti allo stretto che divide la Calabria dalla Sicilia. A pochi chilometri sull'altra sponda sorgeva un'isola con un gran monte fumante, l'Etna, ed il Re barbaro si chiedeva come fare a raggiungerla trovandosi sprovvisto di imbarcazioni quindi impotente davanti al mare.All'improvviso apparve una donna meravigliosamente bella, che offrì l'isola al conquistatore, e con un cenno la fece apparire a due passi da lui. Guardando nell'acqua egli vedeva nitidi, come se potesse toccarli con le mani, i monti dell'isola, le spiagge, le vie di campagna e le navi nel porto. Esultando il Re barbaro balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l'isola con due bracciate, ma l'incanto si ruppe e il Re affogò miseramente. Tutto infatti era un miraggio, un gioco di luce della bella e sconosciuta donna, che altri non era se non la Fata Morgana. Il fenomeno si ripete ancora oggi nei giorni calmi e limpidi d'estate, nelle acque della riva di Reggio.

    Scilla e Cariddi

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    Cariddi, nella mitologia greca era un mostro marino, figlia di Poseidone e Gea, che formava un vortice marino, capace di inghiottire le navi di passaggio. La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all'antro del mostro Scilla. Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino ad uno dei due mostri. In quel tratto di mare i vortici sono causati dall'incontro delle correnti marine, ma non sono di entità rilevanti. L'espressione «essere tra Scilla e Cariddi», indica il rischio di sfuggire ad un pericolo per correrne un altro. Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell'Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo.Scilla è una figura della mitologia greca, era un mostro marino. La leggenda vuole che dimori sotto il promontorio di Scilla, da cui uscirebbe di tanto in tanto scatenando spaventose tempeste e terrorizzando i naviganti che possono solo sperare nell'intervento di Glauco, trasformatosi in un tritone marino per amore della ninfa, che emerge a placare i venti ogni volta che infuria la tempesta. Nell'Odissea, Omero la descrive come un'immortale, figlia della dea Crateis. La indica come un mostro con sei teste e dodici gambe, che strappava i marinai dalle loro navi, quando, per evitare i vortici di Cariddi, si avvicinavano alla sua tana. Altre tradizioni la indicano come figlia di Forci e di Ecate. La fanciulla era amata da Poseidone, Anfitrite ne era gelosa ed avvelenò l'acqua nella quale si bagnava e la trasformò in mostro. Scilla viene talvolta indicata come la personificazione della piovra che vive nelle acque del Mar Mediterraneo.

    ll Castello di Stilo

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    Nel 982 il califfo Ibrahim Ibn Ahmad partì dalla Sicilia alla conquista della Calabria e di tutta l'Italia contro i bizantini. Quando arrivò di fronte al castello normanno inizò a cingerlo d'assedio. Tutti quelli che abitavano nel paese furono rifugiati nel castello per ordine del granduca che vi abitava.Il castello era praticamente inaccessibile. Vi era un unica via, dove i soldati dovevano per forza passare uno a uno. Fu così che il califfo decise di prendere il castello per la fame. Al quarto giorno le provviste stavano ormai finendo, e il granduca decise di buttare sul campo nemico tutto il latte delle donne che avevano avuto da poco figli sotto forma di ricotta. Gli arabi pensarono che se usavano pure il cibo come proiettili, l'assedio si sarebbe protratto a lungo, e che le scorte di cibo del castello fossero di una notevole entità. Per di più il califfo provò questa ricotta che agli arabi era sconosciuta con spiacevoli conseguenze. Egli, infatti, si ammalò di dissenteria, e la situazione si aggravò specialmente dopo le cure dei medici arabi con decotti di salvia. Così successivamente fu decisa la ritirata dell'esercito musulmano per volere del nipote Gabir e il castello si salvò.

    Donna Candia di Catanzaro

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    Quando le coste della Calabria erano saccheggiate dai pirati, vicino a Catanzaro approdò una nave saracena che però portava le insegne di Amalfi. E anche i pirati si erano travestiti, in modo tale da ingannare chiunque. La gente del posto corse a vedere e qualcuno chiese ai marinai di dov'erano. «Di Amalfi» rispose uno. «Siamo venuti a portarvi stoffe per le vostre donne e soprattutto per Donna Candia, che le apprezzerà più di tutte.Correte a Catanzaro e avvertitela.» Donna Candia, che era la più bella ragazza della Calabria, venne avvertita e andò a vedere le stoffe dei finti amalfitani.Ma una volta a bordo, mentre guardava e sceglieva, non si accorse che la nave era salpata e che il vento la portava sempre più lontano. Quando furono in mare aperto, però, si rese conto che l'avevano ingannata e rapita. Agitandole la scimitarra sotto il naso, il capitano le disse che lei era destinata all'harem del sultano, perciò tanto valeva rassegnarsi.«Mio padre è ricco, e se chiederai un riscatto ti pagherà bene» disse allora Donna Candia, e il capitano non rispose di no. Cosi, appena passò una nave cristiana, accostarono e la ragazza raccomandò ai marinai di far sapere a suo padre che per riscattarla ci volevano tre leoni, tre falchi e tre colonne d'oro. Quando lo seppe, suo padre si disperò: era un riscatto impossibile, non poteva pagarlo. Allora Donna Candia mandò a dire a suo marito di pagare un riscatto cosi e cosi, ma nemmeno lui seppe procurarselo. E finalmente vennero avvertiti i suoi tre fratelli, che non ci stettero a pensare su: fecero coprire d'oro le loro spade e poi, con una barca velocissima, raggiunsero la nave pirata. Salirono a bordo e dissero al capitano: «Siamo venuti a riscattare nostra sorella! Volevi tre leoni? Eccoci qui, siamo noi e te ne accorgerai quando ti sbraneremo. Volevi tre falchi? Siamo sempre noi, che voliamo sul mare per salvare Donna Candia. E quanto alle tre colonne d'oro, eccole.» Gli mostrarono le tre spade, e un momento dopo stavano infilzando qua e là sbudellando , finché tutti gli uomini dell'equipaggio non furono morti stecchiti. Poi riportarono Donna Candia a Catanzaro, e la storia è finita.

    Adele, la suora fantasma, e il suo amore infelice per Saverio

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    La storia si pone fra la fine degli anni 1830 – 1840 a cavallo del periodo storico carbonaro-rivoluzionario ed ha in comune alcuni tratti melodrammatici del racconto e delle vicissitudini di Romeo e Giulietta decantata dal grande William Shakespeare; con una differenza: quest’ultima è il frutto della fantasia del poeta, mentre questo racconto è vera storia. Due giovani, appartenenti all’aristocrazia catanzarese e a due famiglie fra le più note della città s’innamorarono.Lei, Adele, figlia del marchese De Nobili (già deceduto al tempo del nostro racconto) era appena ventenne e viveva nel suo palazzo (Palazzo De Nobili, appunto, oggi sede del Municipio) insieme alla madre e ai suoi tre fratelli.Lui, Saverio Marincola, figlio dell’omonima casata nobiliare, è il personaggio maschile. I due s’incontravano furtivamente in quanto la loro relazione era osteggiata dalle due famiglie che erano divise anche per le loro tendenze politiche: l’una, la famiglia De Nobili, fedele al governo borbonico, l’altra, i Marincola, progressista e rivoluzionaria, appoggiava la politica indipendentista carbonara. Saverio, ogni sera incontrava Adele sotto la sua finestra (l’ultima finestra a destra della facciata anteriore di Palazzo De Nobili) e qui i due con la paura di essere scoperti dai fratelli di lei, si lanciano baci e promesse d’amore.Ma, una sera, il maggiore dei fratelli di Adele si accorge della tresca, apre il portone principale del palazzo ed affronta a duello Saverio; quest’ultimo si difende ma poi riesce a fuggire, incalzato non solo dal maggiore, ma anche dagli altri due fratelli della fanciulla. Ad Adele, che viene reclusa nella sua stanza, ma il Marincola escogita un piano per poterla rivedere, facendo in modo che ella non rischiasse di farsi scoprire. Saverio arrivava la sera sotto Palazzo De Nobili in sella al suo cavallo, i cui zoccoli erano ferrati d’argento in modo tale che il suono emesso durante il galoppo fosse diverso da quello degli altri cavalli che normalmente avevano gli zoccoli in ferro. Quel suono, per Adele, era un segnale, ed ella si affacciava alla sua finestra per rivedere e salutare l’amato. La storia non evolve per almeno sei mesi; quando, una sera, intorno alle ore 21.00, il Marincola, provenendo dalla zona di Catanzaro Lido, dove si era recato ad ispezionare alcuni latifondi, viene appostato, nei pressi della salita di rione Samà, e fermato da alcuni colpi di carabina che alcuni sconosciuti gli sparano contro: soccorso da alcuni presenti, morirà dopo due ore. Alla notizia della morte di Saverio, Adele si rinchiude nel suo dolore. Non mangia, non dorme, non vuole vedere nessuno. La magistratura indaga e scopre i colpevoli: sono i fratelli di Adele. I tre fratelli De Nobili fuggono nottetempo salpando verso l’isola di Corfù. Adele, affranta, lascia il palazzo, arriva in carrozza fino a Pizzo Calabro e qui s’imbarca per Napoli dove viene accolta nel Convento delle “Murate Vive”. E’ qui, divenuta suora, che trascorrerà il resto della sua vita. Intanto i fratelli, dall’isola di Corfù, condannati in contumacia, fanno sapere agli operatori di giustizia che, se il loro reato fosse stato perdonato, avrebbero rivelato alle autorità di una certa operazione rivoluzionaria che, dall’isola di Corfù, sarebbe approdata sulle coste calabresi per tentare di far insorgere gli animi al patriottismo, contro i Borboni. Questa spedizione, in effetti, era capitanata da due fratelli che, ufficiali nella Marina Austriaca, nel 1841 disertarono per la causa dell’unità e libertà d’Italia e fondarono la società segreta “Esperia”, affiliata nel 1842 alla Giovine Italia di Mazzini. I due fratelli erano i famosi Attilio ed Enrico Bandiera (Venezia 1810 e 1819, vallone di Rovito, Cosenza 1844) che sbarcarono in Calabria per fomentare una sollevazione ed, appunto, furono traditi e fucilati il 25 luglio 1844 a Cosenza per la delazione dei fratelli De Nobili. In conseguenza alla loro delazione, i fratelli De Nobili, furono prosciolti dalla condanna di omicidio e fu permesso loro di rientrare in Calabria. Il più piccolo di loro cercò di farsi perdonare dalla sorella ed andò a trovarla a Napoli pur sapendo che era difficile vederla ma, ella rifiutò risolutamente di incontrarlo. Adele si considerava morta per il mondo intero e non avendo il coraggio di uccidersi, aveva deciso, pur soffrendo enormemente, di essere per sempre il simbolo del rimorso per i fratelli che si erano macchiate le mani di sangue. Dopo la morte di Adele, molti testimoni giurano di aver visto una figura spettrale, vestita da suora, aggirarsi nel Palazzo De Nobili. Molti di essi sono gli impiegati del Comune di Catanzaro che, anche durante il giorno, vengono disturbati da rumori improvvisi (come lo strano trascinarsi di catene), spostamento di oggetti e improvviso chiudersi o aprirsi di porte. Inoltre, la notte, gli uomini di vigilanza dell’agenzia: “Buccafurri”, dichiarano di rimanere con molto disagio nell’atrio del Municipio e, soprattutto, di essere timorosi nel fare il giro d’ispezione per le stanze, dato che alcuni di essi hanno visto e sentito lo spettro di Adele. E’ uno spirito ancora carico di rancore e di odio per la morte ingiusta del suo amato Saverio, vittima incolpevole di un amore non realizzato. Il fantasma della fanciulla torna nella casa paterna, nella speranza di rivedere ancora una volta quello di Saverio, ma non può più farlo perché affacciarsi alla finestra della sua stanza è impossibile, in quanto, nel frattempo, è stata murata. L’anima della suora vaga poiché dannata. Non è stata, in effetti, la fede a farle prendere i voti, ma la disperazione e l’odio, quindi il suo giuramento verso Dio fu falso e ciò la condanna a vagare per sempre.

    La leggenda del Re Niliu

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    Un mitico Re Niliu, al cui nome si richiama una grotta dritta, a cunicolo, che dal centro del crinale si perde nelle viscere del monte Tiriolo, è il protagonista di una leggenda nella quale sono coinvolti una famiglia regale, una fanciulla bella ma povera, l'ingenuo servo e un gallo.Niliu, rampollo principesco, s'invaghisce di una giovane popolana, con la quale compie una fuga d'amore perché i propositi di coronare felicemente il loro sogno, vengono contrastati dalla madre.Sul giovane in fuga pesa la maledizione dei genitori: sciogliersi come cera colpito dai raggi del sole.Niliu può incontrare la moglie e il figlio nato dall'unione con la fanciulla, soltanto di notte nel lungo cunicolo naturale che dalla cima del monte arriva fin sul mare, nei pressi della foce del Corace, dove nel frattempo aveva trovato riparo il resto della famiglia. Il giovane viene avvertito del sorgere del sole dal canto del gallo.La bella storia d'amore tra il principe e la popolana arricchita dal sorriso di un fanciullo rubicondo, va avanti per parecchio rtempo e fino ….. fino a quando le fate hanno deciso di non far cantare il gallo.Nella fatidica alba, sorpreso dai raggi del sole, Niliu in preda alla disperazione, al servo fedele che chiede conto del lascito delle ricchezze, predice di lasciare tutto al diavolo, il quale a sua volta, diviso il denaro in tre gruzzoli (d'oro, d'argentoo e di bronzo) lo nasconde nelle viscere del monte. L'incantesimo, narra la leggenda in conclusione, si può solo rompere con il ricorso a pratica diabolica.Si riporta di seguito il "Canto do Re Niliu" (brano in dialetto tiriolese tratto dal testo di una rappresentazione teatrale scritto dagli alunni e dai docenti della 1a B e 1a C - anno scolastico 1987/88 - della scuola media statale "V. De Filippis" di Tiriolo) dove si immagina che Demodoco (cantore della corte di Alcinoo) narra tale leggenda per allietare una delle serate trascorse da Ulisse nella terra di Tiriolo. (in corsivo è riportata la voce del coro).

    Edited by Isabel - 14/10/2014, 12:46
     
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    La Bambina Destino

    - Fonte -

    La Leggenda della Bambina Destino, è una delle leggende calabresi sul destino, in cui lo stesso viene presentato sotto sembianze antropomorfe. La leggenda della Bambina Destino tramandata soprattutto nelle aree montane della regione, narrava come il destino di ogni uomo fosse segnato già dal momento della nascita, proprio per volontà del destino, a cui nessun uomo o donna poteva sottrarsi.

    Una volta c’erano un marito e una moglie. Il marito ogni giorno andava in campagna, mentre la moglie restava a casa a lavorare.
    Un giorno l’uomo vide nelle campagne una bambina seduta su una pietra e le disse: “Perché sei qui? Ti sei forse persa?”.
    La bambina non rispose.
    “Oh, poveretta!” esclamò l’uomo, “sei anche muta…”.
    Era il tramonto e l’uomo pensò di non lasciare la bambina sola nella notte. La prese in braccio e la portò a casa.
    Quando arrivò a casa, alla moglie che lo interrogava disse: ”Ho visto questa bambina e le ho domandato che cosa faceva seduta su quella pietra. Non mi ha risposto perché credo sia muta”.
    L’uomo e la donna offrirono amorosamente da mangiare alla bambina, ma lei non volle mangiare.
    Le parlavano e non rispondeva. Alla fine la lasciarono e se ne andarono a dormire.

    Verso mezzanotte si sentì un gran rumore e subito si udì una voce che diceva:
    “Oh, pianeta il più grande!”
    “Cosa vuoi?”, rispose la bambina.
    “Partorì la mugnaia”, disse la voce.
    “E che fece?”, domandò la bambina.
    “Femmina”, rispose la voce. “Cosa ha da essere?”
    “Malafemmina”, rispose la bambina.
    Dopo qualche minuto la voce esclamò:
    “Partorì la regina”.
    “E che fece?” domandò la bambina.
    “Maschio”, rispose la voce. “Cosa ha da essere?”
    “Sarà ammazzato”, disse la bambina.
    Tornò nuovamente la voce e le disse che aveva partorito un’altra donna. E a ogni nato la bambina assegnava il suo destino.
    A un tratto la casa tremò come quando viene il terremoto e la bambina si recò dall’uomo che l’aveva portata in casa.
    Con voce squillante disse: “Io sono il Destino e ti potrei inabissare ma per questa volta non lo farò. Guardati però dal levarmi da dove mi troverai domani. Tienilo a mente per il tuo bene. Quando ti capita di vedermi girati dall’altra parte. Ora prendimi, portami dove mi hai trovata e mettimi seduta su quella pietra in campagna.
    Guai a te se sbagli! Pensaci, pensaci. Io sono il Destino”.



    Le Fate di Regina

    - Fonte -

    Si narra nell’antico borgo di Regina, che il paese un tempo era situato su di una dolce pianura e godesse di un clima sempre mite, e la gente nonostante fosse tutto il giorno impegnata nel duro lavoro dei campi era felice e di buon umore.
    In questa zona si racconta, vivessero le fate e si ricorda in particolare come dal loro passaggio lungo le vie del paese lasciassero una scia di profumo e freschezza, che inebriava tutto l’ambiente circostante.
    Un giorno però mentre si svolgeva la festività del Corpus Domini, un giovane della famiglia Brunelli, una delle nobili famiglie che abitava Regina, invaghitosi di una di queste fate, senza però esserne ricambiato, con un colpo di spada recise la croce che questa portava in processione.
    Tale fu lo sdegno delle altre fate per questo atto ignobile e sacrilego, che maledissero lui e la sua discendenza, tutte le sue ricchezze e le terre di sua proprietà e maledissero lo stesso borgo di Regina dove egli abitava:

    «Regina sia simile ad una punta di coltello, in mezzo a due valloni e che essa vada in rovina e soltanto i topi e le serpi godranno dei suoi ruderi e nelle notti si sentiranno soltanto il lugubre richiamo dei gufi e delle civette»

    Così, Regina da paese circondato da colline boscose e pianure sempreverdi, divenne da quel momento in poi, un paese malsano e maledetto dagli uomini.
    Le poche persone che vi abitavano trasformarono il nome di Regina in Rejina, vale a dire, la rovina della loro esistenza, e da allora le fate non fecero più ritorno in paese.
    Ancora oggi, attraverso un ripido sentiero si scende giù verso il letto del torrente Boccetto.
    Le poche case che si riversano dal ripido pendio dove scorre questo torrente sembrano che da un momento all’altro scivolano a valle e con stupore e meraviglia, si osserva come la forma del paese rassomigli proprio ad una punta di coltello!


    La Sirena Ligea

    - Fonte -

    Le sirene erano divinità marine della mitologia greca, figlie del dio fluviale Acheloo, considerate minacce pericolose per i marinai, che allettati dal loro canto, perdevano il controllo delle loro navi, per fare naufragio sugli scogli, dove le sirene divoravano i malcapitati.
    Diversamente da quanto le si immagina nella cultura odierna, descritte come creature metà donne e metà pesci, in realtà le sirene della mitologia greca erano rappresentate con il busto di donna ed il corpo e le ali di uccello, simili per certi versi ad altre creature del mito greco antico, le arpie.
    La leggenda dice che, compagne di giochi di Persefone, per non aver salvato dal rapimento da parte di Plutone la figlia di Demetra, furono da questa trasformate in sirene.

    Secondo la leggenda, la Sirena Ligea, la più piccola di queste divinità, come le sue consorelle subì un tragico destino. Decisa a morire, si affidò al mare in tempesta da cui si fece trasportare senza opporre resistenza finché arrivò al Golfo di Sant’Eufemia. Fu trovata morta dai marinai sulla riva dell’Okinaros, dove fu sepolta. Su una piccola isola formata da materiale ghiaioso trasportato durante le alluvioni fu eretto un gran monumento in suo ricordo. L'antico fiume Okinaros altro non è che l'attuale fiume Bagni, la cui foce a quell’epoca molto frastagliata era circondata da una vegetazione molto fitta.
    “O viandante, se vorrai conoscere il percorso della Sirena Ligea che sarà spinta dai flutti a Terina...
    I Faleri la seppelliranno nelle arene del lido contiguo ai vortici dell’Okinaros dove era anche il sepolcro del Marte dalle corna di bue, dovrai attraversare la via Traiana, raggiungere Terina dal Golfo Terineo o Lametino...”
    La sirena Ligea è raffigurata in varie monete di Terina: in alcune è seduta su un cippo mentre gioca con una palla lanciata con la mano destra, in altre riempie un’anfora con l’acqua che esce dalla bocca di un leone.

    Edited by Isabel - 7/11/2014, 12:45
     
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