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Risorgimento

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  1. Isabel
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    Risorgimento

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    Info - Scheda Wikipedia

    Con Risorgimento la storiografia si riferisce al periodo della storia d'Italia durante il quale la nazione italiana conseguì la propria unità nazionale, riunendo in un solo nuovo Stato – il Regno d'Italia – gli stati preunitari. Il termine, che designa anche il movimento culturale, politico e sociale che promosse l'unificazione, richiama l'ideale romantico e nazionalista di una resurrezione d'Italia attraverso il raggiungimento di un'identità unitaria che si era iniziata a delineare durante la dominazione romana, la cui specificità «...valse a imprimere sull'Italia un tratto oggettivo di esperienza unitaria...». Tale processo identitario si arrestò definitivamente nella seconda metà del VI secolo. Sebbene non vi sia consenso unanime tra gli storici, la maggior parte di essi tende a stabilire l'inizio del Risorgimento, come movimento, subito dopo la fine del dominio Napoleonico e il Congresso di Vienna nel 1815, e il suo compimento fondamentale con l'annessione dello Stato Pontificio e lo spostamento della capitale a Roma nel febbraio 1871. Tuttavia, gran parte della storiografia italiana ha esteso il compimento del processo di unità nazionale sino agli inizi del XX secolo, con l'annessione delle cosiddette terre irredente, a seguito della prima guerra mondiale, creando quindi il concetto di quarta guerra di indipendenza. Anche la Resistenza italiana (1943-1945) è stata talvolta ricollegata idealmente al Risorgimento. Sin dalla nascita del Regno d'Italia, sono state mosse critiche al processo di unificazione, le quali hanno dato origine ad una storiografia revisionista, di varia ispirazione culturale ed ideale, che contesta in diverso modo la rappresentazione offerta dalla storiografia più diffusa circa i processi politici e militari che condussero all'unità d'Italia, tanto da influenzare, in taluni casi, l'origine di movimenti autonomisti e separatisti, meridionali e settentrionali.

    Estensione cronologica del fenomeno

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    Tra il 1806 e 1810 Canova scolpì l'Italia turrita piangente sulla tomba di Vittorio Alfieri, uno dei primi intellettuali a promuovere il sentimento di unità nazionale

    La definizione dei limiti cronologici del Risorgimento risente evidentemente dell'interpretazione storiografica riguardo a tale periodo e perciò non esiste accordo unanime fra gli storici sulla sua determinazione temporale, formale ed ideale. Esiste inoltre un collegamento tra un "Risorgimento letterario" e uno politico: fin dalla fine del XVIII secolo si scrisse di Risorgimento italiano in senso esclusivamente culturale. La prima estensione dell'ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell'Italia si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), non a caso definito da Walter Maturi il «primo intellettuale uomo libero del Risorgimento»[6], vero e proprio storico dell'età risorgimentale, che diede inizio a quel filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo. Come fenomeno politico, il Risorgimento viene compreso da taluni storici fra il proclama di Rimini (1815) e la breccia di Porta Pia da parte dell'esercito italiano (20 settembre 1870), da altri, fra i primi moti costituzionali del 1820-1821 e la proclamazione del Regno d'Italia (1861) o il termine della terza guerra d'indipendenza (1866). Altri ancora, in senso lato, vedono la sua nascita fra l'età riformista della seconda metà del XVIII secolo e l'età napoleonica (1796-1815), a partire dalla prima campagna d'Italia. La sua conclusione, parimenti, viene talvolta estesa, come detto, fino al riscatto delle terre irredente dell'Italia nord-orientale (Trentino e Venezia Giulia) a seguito della prima guerra mondiale. Infine, le forze politiche che diedero vita alla Costituzione della Repubblica italiana ed una parte della storiografia hanno individuato nella Resistenza all'occupazione nazi-fascista, tra il 1943 ed il 1945, un "secondo" Risorgimento.

    Premesse storiche

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    Le regioni italiane dell'età augustea

    Il Risorgimento italiano trae origine idealmente da diverse tradizioni storiche.

    Impero romano e Medioevo

    Durante l'età augustea l'Italia fu organizzata in un sistema amministrativo distinto da quello tipico della province divenendo la parte privilegiata dell'impero: i suoi abitanti liberi erano cittadini romani, esentati dalla tassazione diretta, eccetto la nuova tassa sulle eredità creata per finanziare i bisogni militari. L'Italia fu dotata di una fitta rete stradale e di numerose strutture pubbliche (evergetismo augusteo). I privilegi accordati da Roma all'Italia, tanto da farne una sorta di metropoli rispetto alle altre province dell'impero, affondavano le loro radici nella più antica politica d'espansione romana, che facendo leva sul comune substrato culturale e linguistico caratterizzante molti popoli italici (Latini, Osci, Falisci ecc.) ed i Veneti, assimilava poi nella stessa koiné anche gli altri popoli della regione italiana (Liguri, Celti, ecc.). Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'unità territoriale della penisola non venne meno né col regno degli Ostrogoti, il primo di tante occasioni mancate nel Medioevo per far nascere anche in Italia una coscienza nazionale come viceversa avvenne in altri paesi europei, né dopo l'intervento diretto dell'imperatore d'Oriente Giustiniano I e la successiva guerra gotica (535-553); questa unità si ruppe con l'invasione longobarda e la conseguente spartizione della penisola. I Longobardi inizialmente tesero a rimanere separati dalle popolazioni soggette sia sotto il profilo politico che militare, ma col tempo finirono sempre più per fondersi con la componente latina e tentarono, sull'esempio romano e ostrogoto, di riunificare la penisola per dare una base nazionale al loro regno. Tale tentativo fallì per l'intervento dei Franchi richiamati da papa Adriano I, secondo un copione tipico destinato a ripetersi nei secoli a venire, che vede il papa cercare il più possibile di impedire la nascita di una potenza nemica sul suolo italico in grado di compromettere la sua autonomia. Prima della conquista franca infatti, il Regnum Langobardorum si identificava con la massima parte dell'Italia peninsulare e continentale e gli stessi re longobardi, dal VII secolo, non si consideravano più solo re dei longobardi, ma dei due popoli (longobardi e italici di lingua latina) posti sotto la propria sovranità nei territori non bizantini e dell'Italia tutta (Dei rex totius Italiae). I vincitori si erano pertanto gradualmente romanizzati, abbracciando la cultura dei vinti grazie anche all'accettazione del latino come unica lingua scritta dello Stato e come strumento di comunicazione privilegiato a livello giuridico e amministrativo. Durante il periodo longobardo, a seguito della Donazione di Sutri si formò il primo nucleo dello Stato Pontificio: il Patrimonium Sancti Petri, primo nucleo territoriale su cui si estenderà il potere temporale della Chiesa, fino al 1870. I Franchi, a partire dalla seconda metà dell'VIII secolo, tentarono di ricostituire l'Impero con Carlo Magno: tale organismo prese corpo definitivamente un secolo e mezzo più tardi, con un sovrano germanico, Ottone I di Sassonia. Il Regno d'Italia era legato a questo grande organismo statuale da vincoli di vassallaggio, dai quali vanamente cercò di sottrarsi. I più celebri fra tali tentativi furono quello di Berengario del Friuli (850-924), e poi di Arduino d'Ivrea (955-1015), personaggi considerati dalla storiografia nazionalista come antesignani dei patrioti risorgimentali. Arduino, attorno all'anno 1000, sostenuto dalla nobiltà laica del nord Italia, condusse alcune campagne militari per liberare l'Italia dalla tutela germanica. Nei primi secoli dopo il Mille, lo stesso desiderio di autonomia e libertà portò a un notevole sviluppo delle Repubbliche marinare (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia), e poi dei liberi Comuni di popolo, favorendo quella rinascita dell'economia e insieme delle arti che approderà al Rinascimento, e che fu anticipata dal risveglio religioso che si ebbe nel Duecento con le figure di Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi. Se durante l'alto Medioevo il sentimento nazionale italiano si mantenne ancora piuttosto in ombra, partecipando alla contesa tra le due potenze di allora, il Papato e l'Impero, con i quali si schierarono rispettivamente Guelfi e Ghibellini, esso cominciò così lentamente a emergere, alimentandosi soprattutto del ricordo dell'antica grandezza di Roma, e trovando nell'identità religiosa rappresentata dalla Chiesa, idealmente erede delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza. La vittoria nella battaglia di Legnano ad opera della Lega Lombarda contro l'imperatore Federico Barbarossa (1176), e la rivolta dei Vespri Siciliani contro il tentativo del re di Francia di assoggettare la Sicilia (1282), saranno assunte in particolare dalla retorica romantica ottocentesca come i simboli del primo risveglio di una coscienza di patria. Mentre però da un lato la formazione dei comuni e delle signorie portò al fallimento di una composizione politica unitaria, per il prevalere di interessi locali in un'Italia suddivisa in piccoli stati, spesso in lotta fra di loro, d'altro lato, secondo taluni autori, fu proprio questo il periodo in cui si formò l'Italia come nazione, «...forse...la più precoce delle nazioni europee...», e in cui, secondo alcuni storici, si produsse ad opera di Federico II di Svevia il primo serio tentativo di unificazione peninsulare. Tale tentativo, secondo altre correnti storiografiche, fu invece espressione della volontà di una politica espansionistica di assoggettamento ad opera del sovrano italo-tedesco, tesa a favorire l'instaurarsi di signorie ghibelline a lui amiche, sottraendo l'Italia dall'influenza papale e sottomettendola per intero all'impero germanico.

    Rinascenze e Rinascimento

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    Dante Alighieri


    Durante le rinascenze culturali del XIII e XIV secolo, che avrebbero condotto al fiorire del Rinascimento, si dimostrò ben vivo il ricordo della passata grandezza dell'Italia come centro del potere e della cultura dell'impero romano e come centro del mondo, e il Paese fu ispirazione ed oggetto di studio per poeti e letterati, cantando lodi all'Italia antica - già vista come continuum culturale se non nazionale - e deprecandone la contemporanea situazione. Un sentimento di comune appartenenza nazionale sembrò maturare presso gli intellettuali del tempo mentre il volgare latino locale veniva elevato al rango di lingua letteraria, primo ideale elemento di una coscienza collettiva di popolo.[24] Anche grazie a tali letterati e intellettuali, fra cui emersero le figure universali di Dante, Petrarca e Boccaccio, che ebbero scambi culturali senza tener conto dei confini regionali e locali, la lingua italiana dotta si sviluppò rapidamente, evolvendosi e diffondendosi nei secoli successivi anche nelle più difficili temperie politiche, pur rimanendo per molti secoli lingua veicolare solo per le classi più colte e dominanti, venendo progressivamente ed indistintamente adottata come lingua scritta in ogni regione italofona, prescindendo dalla nazionalità dei suoi principi.

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    Cosimo de' Medici, Padre della Patria


    Sul piano politico, invece, a causa della mancanza di uno stato unitario sul modello di quelli che stavano via via sorgendo nel resto d'Europa, l'Italia fu costretta a supplire con l'intelligenza strategica dei suoi capi politici alla superiorità di forze degli stati nazionali europei. Esemplare fu in proposito il signore di Firenze Cosimo de' Medici (1389-1464), non a caso soprannominato Pater Patriae, ovvero "Padre della Patria", e considerato uno dei principali artefici del Rinascimento fiorentino: la sua politica estera, infatti, mirante al mantenimento di un costante e sottile equilibrio fra i vari stati italiani, sarà profetica nell'individuare nella concordia italiana l'elemento chiave per impedire agli stati stranieri di intervenire nella penisola approfittando delle sue divisioni. L'importanza della strategia di Cosimo, proseguita dal suo successore Lorenzo il Magnifico (1449-1492) nella sua continua ricerca di un accordo tra gli stati italiani in grado di sopperire alla loro mancanza di unità politica, non venne tuttavia compresa dagli altri prìncipi della penisola, ed essa si concluse con la morte di Lorenzo nel 1492.

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    Francesco Guicciardini


    Da allora in Italia ebbe inizio un lungo periodo di dominazione straniera, la quale, secondo gli storici risorgimentali, fu quindi dovuta non a sterile arrendevolezza, bensì al ritardo del processo politico di unificazione. Nella propaganda risorgimentale, per via del romanzo omonimo di Massimo d'Azeglio, è anzi rimasto celebre e ricordato come gesto di patriottismo l'episodio della disfida di Barletta (1503), quando tredici cavalieri italiani, alleati degli spagnoli per la conquista del Regno di Napoli, capeggiati dal capitano di ventura Ettore Fieramosca, sconfissero in duello altrettanti cavalieri francesi che li avevano insultati accusandoli di viltà e codardia.

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    Niccolò Machiavelli


    L'interesse per l'unità si spostò intanto dall'ambito culturale a quello dell'analisi politica e, già nel XVI secolo, Machiavelli e Guicciardini dibattevano il problema della perdita dell'indipendenza politica della penisola, divenuta nel frattempo un campo di battaglia fra Francia e Spagna e infine caduta sotto la dominazione di quest'ultima. Pur con programmi diversi, Machiavelli e Guicciardini, fautori rispettivamente di uno Stato accentrato e di uno federale, concordavano sul fatto che la perdita dell'individualità nazionale fosse avvenuta a causa dell'individualismo e della mancanza di senso dello Stato delle varie popolazioni italiane. Ecco quindi il compito del Principe al quale Machiavelli lanciava la sua nota « esortazione a pigliare l'Italia e liberarla dalle mani dei barbari. »

    Età napoleonica

    Non fu che alla fine del XVIII secolo, con l'arrivo delle truppe napoleoniche nella penisola, che cominciò a diffondersi presso strati sempre più ampi di popolazione un sentimento nazionale italiano, fino ad allora percepito soltanto da una ristretta cerchia di intellettuali, aristocratici e borghesi già esposti alle idee dell'illuminismo, che aveva trovato in Napoli il suo maggior centro di studio accademico. Un'eredità ancora ben presente, a testimonianza dell'influsso "francese", è data dalla origine del tricolore italiano inizialmente adottato nelle piccole ed effimere repubbliche create da Napoleone Buonaparte nell'Italia centro settentrionale e, quindi divenuto bandiera nazionale italiana.
    Questi nuovi sentimenti nazionalistici vennero anche diffusi dalle nazioni che si fronteggiavano militarmente sul suolo italiano per cercare l'appoggio delle popolazioni. Da Gradisca l'11 ottobre 1813 Eugenio di Beauharnais invitando gli italiani all'unione e al combattimento contro le forze austriache affermava: "... ITALIA! ITALIA! Questo sacro nome, che produsse nell'antichità cotanti prodigj, sia oggidì il nostro grido di unione! ... Il prode che combatte pei suoi focolari, per la sua famiglia, per la sua gloria e per l'indipendenza del suo paese è sempre invincibile ..."; a questo proclama rispondeva Il 10 dicembre 1813 Nugent, comandante delle forze austro britanniche, da Ravenna rivolgendo a sua volta un proclama agli italiani, contenente l'affermazione "... Avrete TUTTI a divenire una nazione indipendente ..." Lord Bentick, comandante dell'esercito britannico in Italia, dopo essere sbarcato a Livorno, il 14 marzo 1814, a sua volta lanciava un appello agli italiani, facendo un parallelo con la Spagna appena resasi indipendente, che si concludeva: "... Congiunte allora le forze nostre faran sì che l'Italia ciò divenga ch'ella già fu ne' suoi migliori tempi, e ciò che al presente è ancora la Spagna.". Un più forte appello per una presa di coscienza politica nazionale diffusa in tale periodo, si trova nel Proclama di Rimini, anche se rimase disatteso, in cui Gioacchino Murat, il 30 marzo 1815, durante la guerra austro-napoletana, rivolse un appello a tutti gli italiani "...Italiani, non state più in forse, siate Italiani..." affinché si unissero per salvare il regno posto sotto la sua sovranità, rappresentato come unico garante della loro indipendenza nazionale contro l'occupante straniero: " ... Italiani, la Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente; dall'Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: Indipendenza d'Italia! ...".

    Le idee e gli uomini

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    Vincenzo Gioberti


    Lo sviluppo di una coscienza politica nazionale coincise, soprattutto nella borghesia, con la diffusione delle idee liberali, e dell'Illuminismo, al punto che nel 1782 40 scienziati italiani fondarono a Verona la Società italiana, ritenendo, come scrisse il suo primo presidente il matematico Antonio Maria Lorgna, che "lo svantaggio dell’Italia è l’avere ella le sue forze disunite" per cui si doveva "associare le cognizioni e l’opera di tanti illustri Italiani separati" ricorrendo "a un principio motore degli uomini sempre attivo, e talora operante con entusiasmo, l’amor della Patria", Lorgna concludeva: "Cari Signori oltremontani, aspettino un pochino e vedranno l’Italia sotto altro aspetto fra pochi anni. Basta che siamo uniti" Queste idee vennero quindi esaltate dalla Rivoluzione francese, ed ebbero un'accelerazione improvvisa con la discesa in Italia di Napoleone Bonaparte nella sua I campagna d'Italia, nel 1796. Rovesciati i sovrani preesistenti, i francesi, deludendo le speranze dei patrioti giacobini italiani, si erano stabilmente insediati nella Pianura Padana, creando repubbliche su modello francese (le cosiddette repubbliche sorelle), rivoluzionando la vita del tempo e portando idee nuove, ma facendone anche ricadere il costo sulle popolazioni locali, sino a generare episodi di rivolta come le cosiddette "Pasque veronesi".

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    Camillo Benso conte di Cavour


    Il sorgere della coscienza nazionale non fu un processo unitario, lineare o coerentemente definito; diversi programmi, aspettative ed ideali, a volte anche incompatibili tra loro, confluirono in un vero e proprio crogiuolo: vi erano in campo quelli romantico-nazionalisti, repubblicani, protosocialisti, anticlericali, liberali, monarchici filo Savoia o papalini, laici e clericali, vi era l'ambizione espansionista di Casa Savoia verso la Pianura Padana, vi era il bisogno di liberarsi dal dominio austriaco nel Regno del Lombardo-Veneto, unitamente al generale desiderio di migliorare la situazione socio-economica approfittando delle opportunità offerte dalla rivoluzione tecnico-industriale, superando al contempo la frammentazione della penisola laddove sussistevano Stati, in parte liberali, che spinsero i vari rivoluzionari della penisola a elaborare e a sviluppare un'idea di patria più ampia e ad auspicare la nascita di uno Stato nazionale analogamente a quanto avvenuto in altre realtà europee come Francia, Spagna e Gran Bretagna.

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    Giacinto Albini


    Le personalità di spicco in questo processo furono molte tra cui: Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano ed europeo; Giuseppe Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per molti un eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed in Sud America; Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado di muoversi sulla scena europea per ottenere sostegni, anche finanziari, all'espansione del Regno di Sardegna; Vittorio Emanuele II di Savoia, abile a concretizzare il contesto favorevole con la costituzione del Regno d'Italia. Vi furono gli unitaristi repubblicani e federalisti radicali contrari alla monarchia come Nicolò Tommaseo e Carlo Cattaneo; vi furono cattolici come Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini che auspicavano una confederazione di stati italiani sotto la presidenza del Papa (neoguelfismo) o della stessa dinastia sabauda; vi furono docenti ed economisti come Giacinto Albini e Pietro Lacava, divulgatori di ideali mazziniani soprattutto nel Meridione. Trascorsa la fase delle società segrete, sviluppatasi soprattutto tra il 1820 ed il 1831, durante i due decenni successivi presero corpo le due correnti principali che promossero con piena consapevolezza ed incisività politica il processo risorgimentale, quella democratica e quella moderata.

    Gli anni della restaurazione

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    La mappa d'Italia con i confini del 1815 e le date dell'unificazione


    Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone il Congresso delle potenze vincitrici riunitosi a Vienna decise di restaurare i sovrani detronizzati in nome del principio di legittimità, talora sacrificato per l'assetto dell'equilibrio di potere (balance of power) tra le potenze europee. Per assicurare il mantenimento dell'ordine, essendo la restaurazione avvenuta senza considerare le volontà popolari e talora imponendo un nuovo dominio diverso da quello pre-napoleonico, come nel caso dell'annessione del Veneto all'impero Austroungarico, venne sviluppato il principio d'intervento e della sovranità limitata degli stati. Dove la situazione politica di uno stato mettesse in pericolo l'ordine negli altri stati, si previde la creazione di uno strumento repressione internazionale chiamato Santa Alleanza a cui avrebbero partecipato forze armate delle potenze vincitrici. Il patto fu stipulato tra l'Austria, la Prussia, la Russia; successivamente il 20 novembre 1815 la Gran Bretagna aderì a quella che fu chiamata la Quadruplice Alleanza, che l'entrata della Francia di Luigi XVIII nel 1818 trasformò nella Quintuplice Alleanza. Il Congresso concordò inoltre incontri periodici (il cosiddetto Concerto d’Europa), al fine di controllare lo stato dell'ordine internazionale, appianare i contrasti e assicurare la pace: uno strumento questo così efficace che fino alla guerra di Crimea vennero evitati conflitti tra le potenze europee. Dopo il Congresso di Vienna, l'influenza francese e rivoluzionaria rimase nella vita politica italiana attraverso la circolazione delle idee e la diffusione di gazzette letterarie; fiorirono salotti borghesi che, sotto il pretesto letterario, crearono veri e propri club di tipo anglosassone o giacobino, spesso di modello iniziatico e massonico. Tali circoli si prestarono talvolta a coprire alcune società segrete che andavano formandosi, come i Filadelfi e gli Adelfi, trasformatisi infine nei Sublimi Maestri Perfetti di Filippo Buonarroti.

    I moti carbonari

    In questo panorama patriottico settario, la principale associazione politica segreta fu quella della Carboneria, originariamente nata a Napoli nel 1814 per opporsi alla politica filonapoleonica di Gioacchino Murat; dopo la caduta di quest'ultimo e l'insediamento o il ritorno sui troni in alcuni stati della penisola italiana di sovrani illiberali tramite l'intervento delle truppe austriache, la Carboneria si diffuse nella penisola assumendo un carattere cospiratorio con lo scopo di trasformare questi stati in stati costituzionali provocandovi moti rivoluzionari.

    1817

    Il primo moto carbonaro venne tentato a Macerata, nello Stato pontificio, nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1817, ma la polizia papalina, informata dei preparativi, soffocò l'azione sul nascere. Tredici congiurati furono condannati a morte e poi graziati da papa Pio VII. Nel luglio del medesimo anno le rimanenti truppe austriache, ancora presenti a Napoli dopo aver riportato i Borboni sul trono, completarono il loro ritiro dal Regno delle Due Sicilie e il generale austriaco Laval Nugent von Westmeath divenne comandante supremo dell'esercito delle Due Sicilie e Ministro della Guerra.

    1820-1823

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    L'arresto di Silvio Pellico e Pietro Maroncelli (1820)


    Nel porto spagnolo di Cadice il 1 gennaio 1820 gli ufficiali delle forze militari che avrebbero dovuto reprimere la rivolta di Simón Bolívar nell'America del sud rifiutarono di imbarcarsi. Il loro pronunciamiento si estese a tutta la Spagna, obbligando il re Ferdinando VII a concedere nuovamente il 10 marzo dello stesso anno la Costituzione di Cadice del 1812. Le notizie di questi avvenimenti accesero gli animi dei carbonari italiani provocando i moti costituenti degli anni 1820-1821 che, pur avendo tutti come finalità la progressiva liberalizzazione dei regimi assolutistici, assunsero tuttavia connotazioni diverse da Stato a Stato e da città a città. In Sicilia una rivolta separatista esplose il 15 luglio 1820 con la formazione di un governo a Palermo che ripristinò la Costituzione siciliana del 1812. I separatisti del governo provvisorio inviarono una lettera al re dove dichiaravano che: «Dal 1816 in poi, la Sicilia ebbe la sventura di essere cancellata dal novero delle nazioni e di perdere ogni costituzione. Noi domandiamo l'indipendenza della Sicilia e i voti non sono solo di Palermo ma della Sicilia intera e la maggior parte del popolo siciliano ha pronunziato il suo voto per l'indipendenza». Il 7 novembre 1820 il Borbone inviò un esercito agli ordini di Florestano Pepe (poi sostituito dal generale Pietro Colletta) che riconquistò la Sicilia attraverso lotte sanguinose e ristabilì la monarchia assoluta risottomettendo la Sicilia a Napoli. A Napoli i moti iniziati il 1 luglio del 1820 ad opera di due giovani ufficiali, Michele Morelli (1790-1822) e Giuseppe Silvati (1791-1822), culminarono con la presa della città: il generale Guglielmo Pepe, comandante degli insorti, riuscì ad imporre al re Ferdinando I la concessione della costituzione. Per riportare l'ordine negli stati che si erano sollevati le potenze europee della Quadruplice alleanza si riunirono nel dicembre del 1820 al Congresso di Troppau. Ferdinando I convocato nel successivo Congresso di Lubiana nel gennaio 1821 ebbe il permesso di recarvisi dal governo rivoluzionario. Di fronte ai rappresentanti delle potenze il re, sconfessando gli impegni presi alla partenza da Napoli col parlamento napoletano di difendere la costituzione, richiese l'intervento militare degli Austriaci, che sconfissero l'esercito napoletano, guidato da Pepe, nella battaglia di Antrodoco il 7 marzo 1821 e conquistarono Napoli il 23 marzo. La costituzione venne annullata[50] e trenta rivoluzionari furono condannati a morte (tra cui Pepe, Morelli e Silvati). A Palermo, nell'agosto 1821, vennero costituite venti "vendite" carbonare, con la finalità di abbattere il governo e avere la costituzione spagnola; il moto era guidato dal sacerdote Bonaventura Calabrò, che organizzò una rivolta prevista il 12 gennaio 1822, creando un nuovo vespro. Tuttavia il susseguirsi delle riunioni insospettì la polizia borbonica, che convinse un congiurato al doppio gioco. Nella notte dell'11 gennaio iniziarono i primi arresti e confessioni, un timido tentativo di rivolta che avvenne l'indomani fu represso e i congiurati imprigionati. Il 31 gennaio, nove dei congiurati, tra cui due sacerdoti, furono condannati a morte e le loro teste, rinchiuse in gabbie di ferro, rimasero appese a Porta San Giorgio fino al 1846. Mentre a Napoli i rivoltosi ebbero come unica finalità la promulgazione della costituzione, a Torino l'insurrezione scoppiata nel gennaio 1821 accolse tensioni e inquietudini anti-austriache, già manifestatesi in quella città con i moti studenteschi soffocati nel sangue dalla polizia sabauda. Questi ultimi moti videro come protagonista alcuni degli uomini simbolo del Risorgimento, tra i quali Santorre di Santarosa.

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    Silvio Pellico


    Anche a Milano partecipò ai moti una componente patriottica e anti-austriaca, guidata dal conte Federico Confalonieri, rinchiuso, subito dopo il fallimento dell'insurrezione, nella Fortezza dello Spielberg, dove era già custodito da alcuni mesi l'amico Silvio Pellico. Le repressioni, conseguenti al fallimento dei moti, spinsero all'esilio molti patrioti italiani, come Antonio Panizzi, che proseguirono all'estero la loro azione, impegnandosi propagandisticamente e stabilendo contatti con personalità delle potenze straniere interessate a risolvere il problema italiano.

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    Giuseppe Mazzini


    Il periodo dei moti liberali si chiuse a fine settembre 1823, con la resa di Cadice, dopo la battaglia del Trocadero, a cui partecipò anche Carlo Alberto di Savoia, vinta dalle forze francesi di Luigi XVIII, incaricato dalle potenze della Santa Alleanza di ripristinare con la forza la monarchia assoluta in Spagna.

    1824-1847

    In Romagna nel 1824, dopo l'uccisione del direttore di polizia di Ravenna Domenico Matteucci, ad opera di una cospirazione carbonara, il cardinale Agostino Rivarola venne inviato per reprimerla. Rivarola, nominato "cardinal legato a latere", fece condurre un'indagine che portò ad un processo e alla sentenza del 31 agosto 1825, con la quale vennero condannate, a varie pene, 514 persone appartenenti a tutti gli strati sociali. Successivamente fu concessa la commutazione della pena ai sette condannati alla pena capitale e la grazia per molti altri. Nuove insurrezioni si ebbero nel Cilento nel 1828 per ottenere il ripristino della Costituzione che nel 1820 era stata concessa nel Regno delle Due Sicilie. Il tentativo dei rivoltosi si concluse tragicamente con trentatré condanne a morte e il paesino di Bosco raso al suolo a cannonate dal maresciallo Del Carretto, e in Emilia-Romagna, tra il 1830 e il 1831, con la nascita di un effimero Stato delle Province Unite Italiane, represso con l'intervento delle truppe austriache. Nel 1832 riprese la ribellione in Romagna, repressa dal cardinale Albani che intervenne con forze sanfediste. Dopo un primo scontro con le guardie civiche, il 20 e 21 gennaio, che si caratterizzò con le "stragi di Cesena e Forlì", altre battaglie vi furono il 24 gennaio a a Faenza, il 25 a Forli. La riunione delle forze papaline con le truppe austriache e quindi il loro ingresso il 26 a Bologna concluse la rivolta. Per bilanciare l'intervento austriaco a Bologna, i francesi il 26 febbraio occuparono Ancona dove rimasero per sei anni. Nel 1832, fu pubblicata a Torino l'autobiografia di Silvio Pellico, Le mie prigioni, con la descrizione delle dure condizioni di vita dei prigionieri politici in regime di carcere duro nella fortezza austriaca dello Spielberg. Il libro ebbe una vasta risonanza, sia in Italia che nei salotti europei, accentuando nei patrioti italiani i sentimenti antiaustriaci. Nel 1849 Metternich commenterà che quel libro aveva danneggiato l'Austria più di una battaglia persa. Nel 1834 avvenne il fallimento dell'invasione della Savoia per suscitare una rivolta nel Regno Sardo Piemontese, organizzata da Mazzini e guidata sul campo da Ramorino. Il 12 luglio 1837, in seguito a voci incontrollate sull'arrivo nel porto di una nave contagiata dal colera si ebbe l'insurrezione di Messina, seguita nel volgere di pochi giorni dalla insurrezione di Catania e Siracusa richiedenti il ripristino della Costituzione del 1812, questi moti siciliani furono repressi da Del Carretto, e terminati con la fucilazione di numerosi patrioti. Il 23 del medesimo mese insorse Penne in Abruzzo, sotto la guida di Domenico de Caesaris, la rivolta fu repressa dal colonnello Tanfano e si concluse con la fucilazione di otto rivoltosi. Tanfano sarà ucciso quattro anni dopo, durante l'insurrezione antiborbonica dell'Aquila dell 8 settembre 1841, terminata anch'essa con la fucilazione di tre insorti.

    Rivolte mazziniane

    A partire dai primi anni trenta dell'Ottocento si impose come figura di primo piano Giuseppe Mazzini (1805-1872) che divenne membro della Carboneria nel 1830. La sua attività di ideologo e organizzatore lo costrinse a lasciare l'Italia nel 1831 per fuggire a Marsiglia, dove fondò la Giovine Italia, un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la costituzione di uno Stato unitario e repubblicano, da inserire in una più ampia prospettiva federale europea. La condivisione del programma mazziniano portò Giuseppe Garibaldi (1807–1882) a partecipare ai sommovimenti rivoluzionari in Piemonte del 1834, per il fallimento dei quali fu condannato a morte dal governo sabaudo e costretto a fuggire in Sud America, dove partecipò ai moti rivoluzionari in Brasile ed Uruguay. Per la mancanza di coordinamento tra i congiurati, per l'assenza e l'indifferenza delle masse, tutte le rivolte mazziniane fallirono.

    I congressi scientifici prima del '48

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    Mappa preunitaria degli stati italiani


    Il regime "liberale" del Granducato di Toscana permise nel 1839 la nascita della Società Italiana per il Progresso delle Scienze a Pisa, dove verrà organizzato il "Primo congresso degli scienziati italiani" (1839), a cui parteciparono studiosi dai vari stati della penisola: la prima riunione pubblica di uomini di scienza riuniti sotto il comune attributo di "italiani". I congressi proseguirono a cadenza annuale, nei diversi stati: Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli (che fu il più numeroso, con circa 1600 partecipanti), Genova ed infine, nel 1847, Venezia; i moti insurrezionali dell'anno successivo ed i conseguenti irrigidimenti dei regimi impedirono successivi congressi fino al congresso di Firenze del 1861. Oltre al loro contenuto scientifico, questi congressi permisero scambi di idee e confronti nella nuova classe intellettuale italiana che andava formandosi, ed erano anche visti come una possibilità di discutere delle vicende italiane come la liberalizzazione commerciale, la necessità di una lega doganale, la costruzione di ferrovie, mascherando sotto questi progetti di modernità economica e strutturale la fondamentale esigenza di un'unificazione politica.

    Il biennio delle riforme

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    Massimo d'Azeglio


    Nel cosiddetto biennio delle riforme (1846-1848), a seguito del fallimento dei moti rivoluzionari mazziniani, prendono vigore progetti politici di liberali moderati, tra cui spiccano Massimo d'Azeglio, Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo con "le speranze d'Italia" i quali, sentendo soprattutto la necessità di un mercato unitario come premessa essenziale per un competitivo sviluppo economico italiano, avanzano programmi riformisti per una futura unità italiana nella forma accentrata o federativa. Nasce così il movimento neoguelfo che riscuote un grande successo presso l'opinione pubblica in coincidenza con l'elezione nel 1846 di papa Pio IX, ritenuto un "liberale". Sotto la spinta di questi movimenti molti stati italiani attuarono diverse riforme modernizzatrici: nel Granducato di Toscana fu ampliata la libertà di stampa e si ebbe la formazione di una guardia civica, nel Regno di Sardegna si ebbero riforme in senso liberale dell'ordinamento giudiziario, altre riforme vennero concesse nello Stato della Chiesa, dove il nuovo pontefice concesse una amnistia ai prigionieri. Nel 1847 Pio IX prese la decisione di proporre al regno piemontese e al granducato di Toscana l'unione in una "Lega doganale" per favorire la circolazione delle merci; l'iniziativa si fermò dopo la firma di un accordo di intenti il 3 novembre 1847, nel tentativo di coinvolgere il ducato di Modena; l'inizio delle agitazioni del 1848 fece definitivamente tramontare il progetto.

    La "primavera dei popoli" e la I guerra d'indipendenza

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    Le cinque giornate di Milano - Dipinto di Baldassare Verazzi


    Gli anni 1847-1848, la cosiddetta "Primavera dei popoli", videro lo sviluppo di vari movimenti rivoluzionari in tutta Europa; rivolte scoppiarono il 23 febbraio in Francia, il 28 febbraio nello Stato di Baden inizio' la rivolta che velocemente si estese a tutti gli stati tedeschi e il 13 marzo raggiunse l'Austria, il 15 marzo insorse l'Ungheria, il 28 marzo la Polonia. Tutti questi moti furono repressi secondo gli schemi della Restaurazione, tranne che in Francia, dove la Seconda Repubblica francese si sostituì alla monarchia di re Luigi Filippo Borbone d'Orléans con Luigi Napoleone che, dopo quattro anni, diventerà Napoleone III imperatore dei francesi. Questi eventi francesi provocarono la fine degli equilibri politici esistenti in Europa dal Congresso di Vienna, modificando le alleanze fra gli stati ed influiranno sulle vicende italiane, spingendo persino alcuni esuli napoletani a progettare l'insediamento sul trono di Napoli di Luciano Murat secondogenito di Gioacchino Murat. Nel Regno delle Due Sicilie, che fino a quel momento non aveva seguito questi sviluppi, ma si era caratterizzato per una forte repressione politica che si era esercitata, ancora nel 1844, ai danni dei giovani fratelli Attilio (1810–1844) ed Emilio Bandiera (1819–1844), disertori della marina austriaca, fatti fucilare dal re Ferdinando II per aver tentato un'improvvisata spedizione di tipo mazziniano in Calabria, scoppiò una rivolta indipendentista in Sicilia che, propagatasi a Napoli, costrinse il sovrano a promulgare l'11 febbraio del 1848 una costituzione simile a quella francese del 1830. Gli altri sovrani italiani dovettero seguire rapidamente l'esempio di Ferdinando II: Leopoldo II di Toscana concesse uno Statuto dopo pochi giorni, il 4 marzo Carlo Alberto promulgò lo Statuto albertino e il 14 marzo fu la volta dello Stato Pontificio. In Italia il 1848 fu principalmente segnato dalla decisione da parte del Regno di Sardegna di farsi promotore dell'unità italiana. Primo passo in tal senso fu la Prima Guerra d'Indipendenza, anti austriaca, scoppiata in occasione della rivolta delle Cinque giornate di Milano (1848). Tale guerra, condotta e definitivamente persa da Carlo Alberto a seguito della sconfitta nella Battaglia di Novara, si concluse con un sostanziale ritorno allo statu quo ante e la salita al trono di Vittorio Emanuele II a seguito dell'abdicazione del padre. Vittorio Emanuele II, diversamente da quanto fecero gli altri governanti italiani, non ritiro' lo Statuto Albertino concesso dal padre, così il suo regno divenne l'unico stato con costituzione nella penisola italiana.

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    Attacco di Sommacampagna (Veneto) del 26 aprile 1848. - Litografia di Stanislao Grimaldi del Poggetto


    In tale ambito assunsero notevole importanza alcune esperienze repubblicane temporanee, pur senza un loro esito finale positivo. Dal febbraio 1849 al luglio 1849 si svolse la vicenda della Repubblica Romana, che vide Pio IX fuggire dalla città e rifugiarsi nella fortezza di Gaeta come ospite di Ferdinando II di Borbone. La Repubblica Romana, che comprendeva tutte le terre già pontificie, fu sciolta con gli interventi militari degli austriaci che assediarono Ancona e dei francesi che attaccarono Roma, cancellando la prospettiva di una soluzione neoguelfa per l'unità della nazione. Anche il Veneto insorse: a Venezia, con un'insurrezione iniziata il 17 marzo 1848 nasceva la Repubblica di San Marco che ridava temporaneamente la libertà alla città, nel Cadore per circa due mesi una piccola armata di volontari, guidati da Pietro Fortunato Calvi, sbarro' l'accesso alla regione alle armate austriache. Venezia resistette ad un lungo assedio fino alla sua capitolazione il 27 agosto 1849, dopo una dura lotta, a seguito dell'intervento militare austriaco che ripristinava il dominio sul Veneto. Nei territori lombardi sottoposti al dominio austriaco, scoppiarono anche piccole rivolte locali: dopo l'Armistizio di Salasco nell'ottobre 1848 si ebbero moti mazziniani in Val d'Intelvi e dopo la definitiva sconfitta piemontese nel 1849 ci fu l'episodio delle Dieci giornate di Brescia, che vide la città resistere sino a fine marzo 1849, per dieci giorni, alle truppe austriache, che, dopo la loro vittoria alla battaglia di Novara, rioccuparono le campagne lombarde; al termine dei combattimenti la città fu lasciata al saccheggio della truppa austriaca.

    Le azioni mazziniane

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    Carlo Pisacane


    Nei dieci anni successivi alla sconfitta (il cosiddetto "decennio di preparazione") riprese inizialmente vigore il movimento repubblicano mazziniano, favorito anche dal fallimento del programma federalista neoguelfo; i mazziniani promossero una serie di insurrezioni, tutte fallite. Quelle che più impressionarono l'opinione pubblica italiana ed europea furono l'episodio dei martiri di Belfiore (1852), strascico repressivo austriaco contro le ribellioni avvenute negli anni precedenti nel Regno Lombardo Veneto, e la disastrosa spedizione di Sapri (1857), nel Regno delle Due Sicilie, condotta all'insegna del credo mazziniano per il quale ciò che contava era più che il successo il "dare l'esempio" e conclusasi con la morte di Carlo Pisacane e dei suoi 23 compagni, massacrati dai contadini assieme ad altri patrioti liberati all'inizio della spedizione dal carcere di Ponza. Fortemente impressionò la borghesia italiana anche la rivolta milanese del 6 febbraio 1853 che condotta con spirito mazziniano, ossia confidando in una spontanea partecipazione popolare e addirittura nell'ammutinamento dei soldati ungheresi dell'esercito austriaco, fallì miseramente nel sangue. Oltre che l'impreparazione e la superficiale organizzazione dei rivoltosi, operai d'ispirazione politica socialista, furono proprio i mazziniani, notoriamente in contrasto ideologico col marxismo, a contribuire al fallimento non facendo loro pervenire le armi promesse e mantenendosi passivi al momento dell'insorgere della rivolta. Un pugno di uomini armati di pugnali e coltelli andarono così consapevolmente incontro al disastro in nome dei loro ideali patriottici e socialisti. A Napoli nel 1856, dopo un fallito attentato al re Ferdinando II, veniva condannato a morte il calabrese Agesilao Milano mentre in Sicilia veniva repressa una sommossa organizzata da Francesco Crispi e Francesco Bentivegna. La crisi del movimento mazziniano favorisce nel 1857 la creazione in Piemonte della Società nazionale italiana, ad opera degli esuli Daniele Manin e Giuseppe La Farina e in probabile accordo con Cavour, a supporto del movimento unitario che si stava formando attorno al Piemonte, operando alla luce del sole nel regno sabaudo e clandestinamente negli altri stati italiani.

    La realpolitik cavouriana

    Nel 1850 Camillo Benso conte di Cavour entra nel governo piemontese: inizialmente come ministro per il commercio e l'agricoltura, divenendo poi anche ministro delle finanze e della Marina; infine è primo ministro il 4 novembre 1852. Fin dall'inizio come ministro del commercio intraprende un'azione che punta a molteplici accordi con le nazioni europee, stringendo accordi commerciali con Grecia, le città anseatiche, l’Unione doganale tedesca, la Svizzera e i Paesi Bassi, ed approfondisce i contatti con le potenze europee viaggiando nell'estate del 1852 ed incontrando a Londra il Ministro degli Esteri inglese Malmesbury, Palmerston, Clarendon, Disraeli, Cobden, Lansdowne e Gladstone e a Parigi il presidente Luigi Napoleone ed il ministro degli esteri francese. L'anno successivo Ludwig von Rochau introducendo il concetto di realpolitik col suo saggio Principles of Realpolitik ne porta come esempio l'azione di Cavour che prepara le basi "per una grande originale operazione nazionale". Sotto Cavour si accentuano i contrasti con i conservatori clericali e il Regno di Sardegna, arrivando ad un punto di non ritorno con la scomunica papale comminata al Re Vittorio Emanuele II, a Cavour e a tutti membri del governo e del parlamento a seguito della Crisi Calabiana (1855) che si concluse con l'approvazione della legge sui conventi.

    La II guerra d'indipendenza

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    Napoleone III


    Il biennio 1859-1860 costituì una nuova fase decisiva per il processo d'unificazione, caratterizzato dall'alleanza tra la Francia di Napoleone III e il Regno di Sardegna siglata con gli accordi di Plombieres del 21 luglio 1858, che peraltro non prevedevano la completa unità italiana estesa a tutta la penisola.
    Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II, inaugurando i lavori del Parlamento subalpino, pronunciò un famoso discorso della Corona con l'affermazione: «Noi non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi»; frase che esprimeva un'accusa di malgoverno austriaco sugli italiani ai quali il re sabaudo si proponeva come loro soccorritore e una velata ricerca del "casus belli": elemento quest'ultimo necessario poiché, secondo gli accordi, Napoleone III sarebbe entrato in guerra solo in seguito ad un attacco austriaco al Piemonte. Nel frattempo Garibaldi veniva autorizzato a condurre apertamente una campagna di arruolamento di volontari nei Cacciatori delle Alpi, una nuova formazione militare regolarmente incorporata nell'esercito sardo. L'Austria colse nelle parole del sovrano piemontese e nel riconoscimento ufficiale dei volontari agli ordini del noto rivoluzionario mazziniano Garibaldi, che veniva stanziato ai confini del Lombardo-Veneto, una provocazione e una sfida. La possibilità però di una guerra all'Austria con l'alleato francese sembrava ancora lontana dal realizzarsi per l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano in una guerra vittoriosa del Piemonte una probabile successiva annessione dello Stato pontificio, con la conseguente perdita del potere temporale del papa. Per allontanare il rischio di una guerra agiva anche la diplomazia inglese e prussiana che si adoperava per una conferenza di pace: si sapeva infatti che gli accordi di Plombieres prevedevano un insediamento della Francia nell'Italia centrale e meridionale che avrebbe alterato i rapporti di forza in Europa.

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    La battaglia di Varese


    Dopo mesi, durante i quali sembrava si potesse giungere a una pacificazione, giunse l'ultimatum austriaco al Piemonte con l'ingiunzione di disarmare l'esercito e il corpo dei volontari. Cavour in risposta all'intimazione austriaca dichiarò di voler resistere all'«aggressione» e a fine aprile giunse la dichiarazione di guerra degli austriaci che attaccarono il Piemonte attraversando il confine sul fiume Ticino (26 aprile). Il 12 maggio 1859 l'alleato francese Napoleone III, sulle orme del "grande zio", secondo gli accordi convenuti, entrò in guerra al comando dell'Armée d'Italie. Seguirono nel periodo maggio-giugno una serie di vittorie franco-piemontesi, ma con un alto numero di perdite, mentre i Cacciatori delle Alpi al comando di Garibaldi dopo aver preso Varese, Bergamo, Brescia continuavano ad avanzare verso il Veneto. Alle notizie della guerra all'Austria il 27 aprile 1859 i ducati emiliani, le legazioni pontificie, e il Granducato di Toscana, dopo l'abbandono del granduca Leopoldo, chiedevano ed ottenevano l'invio di commissari sabaudi per l'annessione al Regno sardo.

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    La Battaglia di Solferino


    Questi avvenimenti che sconvolgevano gli accordi di Plombieres sulla spartizione degli stati italiani, il malcontento dell'opinione pubblica francese per l'alto numero di morti nella guerra in Italia, l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano realizzarsi i loro timori per la perdita dell'autonomia papale, spinsero Napoleone III ad accettare di firmare un armistizio (luglio 1859) con l'imperatore Francesco Giuseppe d'Asburgo ("preliminari di pace di Villafranca") che concedeva ai Piemontesi la sola Lombardia (eccetto Mantova e Peschiera del "Quadrilatero") in cambio dell'abbandono delle terre già occupate nel Veneto e della rinuncia a soddisfare le richieste di annessioni. Vittorio Emanuele accettò le condizioni di pace e ritirò i commissari regi dalle città di Firenze, Parma, Modena, Bologna dove però i governi provvisori si opponevano alla restaurazione ipotizzando anche una forza militare comune di difesa, mentre le truppe papaline riprendevano militarmente il controllo dell'Umbria ribellatasi. Nel frattempo il quadro internazionale cambiava e l'Inghilterra si mostrava favorevole ad una situazione italiana dove la Francia non avrebbe avuto alcun peso mentre uno Stato unitario italiano poteva costituire un valido punto d'equilibrio in Europa sia nei confronti della Francia che dell'Austria. Il ritiro unilaterale dei francesi rendeva nulli gli accordi di Plombieres, ma Cavour colse l'occasione delle mutate condizioni offrendo a Napoleone III la Savoia e il Nizzardo in cambio del riconoscimento francese delle annessioni dell'Emilia e della Toscana che, con il consenso della Francia, tramite i plebisciti dell'11 e 12 marzo 1860, entrarono a far parte del Regno di Sardegna.

    La Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia

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    Giuseppe Garibaldi


    Ulteriore passo verso l'unità fu la spedizione "dei Mille" garibaldini in Sud Italia. Quest'ultima era formata da poco più di un migliaio di volontari provenienti in massima parte dalle regioni settentrionali e centrali della penisola, appartenenti sia ai ceti medi che a quelli artigiani e operai; fu l'unica impresa risorgimentale a godere, almeno nella sua fase iniziale, di un deciso appoggio delle masse contadine siciliane, all'epoca in rivolta contro il governo borbonico e fiduciose nelle promesse di riscatto fatte loro da Garibaldi. «Il profondo malcontento delle masse popolari delle campagne e delle città, sebbene avesse le sue radici nella miseria e quindi nella struttura di classe della società, si rivolgeva contro il governo prima ancora che contro le classi dominanti». Dopo la battaglia di Calatafimi, dove fu determinante per la vittoria la partecipazione dei contadini siciliani, con la partecipazione di 200 picciotti siciliani e circa 2.000 contadini locali in aggiunta ai 1.089 volontari garibaldini, e la conquista di Palermo, mentre le truppe regie si ritirano verso Messina, secondo Del Carria "con la metà di giugno si spezza definitivamente l'alleanza tra borghesi e contadini per dar luogo all'alleanza tra borghesi isolani e borghesia continentale rappresentata dai garibaldini e dai moderati", significativo e' la repressione ordinata a Nino Bixio, della ribellione contadina avvenuta a Bronte a rischio di estensione in tutta la regione del catanese.

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    Vittorio Emanuele II re d'Italia


    Mentre Garibaldi avanzava da sud, in agosto insorse la Basilicata arrivando ad avere un governo provvisorio che rimase in carica fino all'ingresso di Garibaldi a Napoli. Le truppe di Vittorio Emanuele II entravano nello Stato della Chiesa scontrandosi il 18 settembre con l'esercito pontificio nella Legazione delle Marche, a Castelfidardo, dove ottennero la vittoria che portò poi all'annessione di Marche ed Umbria. Solo dopo questa vittoria si poté pensare alla proclamazione del Regno d'Italia in quanto fu possibile unire politicamente le regioni del nord e del centro, confluite nel Regno di Sardegna in seguito alla seconda guerra d'indipendenza (e le conseguenti annessioni), alle regioni meridionali conquistate da Garibaldi e definitivamente sottratte ai Borbone, dinastia che in passato aveva dato a Napoli anche un grande sovrano, ma che «...ormai rappresentava, nella vita dell'Italia Meridionale, la peior pars...», cioè la parte peggiore, come scrisse Benedetto Croce. Anche lo storico e filosofo Ernest Renan, in viaggio nel Mezzogiorno d'Italia attorno al 1850, al pari degli altri viaggiatori e osservatori stranieri constatava l'«...affreuse tyrannie intellectuelle qui règne sur cette partie de l'Italie...» Dopo alcuni tentennamenti e sotto la pressione di Cavour e dell'imminente annessione di Marche ed Umbria alla monarchia sabauda, Garibaldi, pur di idee repubblicane, non pose ostacoli all'unione dell'ex Regno delle Due Sicilie al futuro Stato unificato italiano, che già si profilava all'epoca sotto l'egida di Casa Savoia. Tale unione fu formalizzata mediante il referendum del 21 ottobre 1860. Il 17 marzo 1861 il parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele II non re degli italiani ma «re d'Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione». Non "primo", come re d'Italia, ma "secondo" come segno distintivo della continuità della dinastia di casa Savoia che aveva realizzato la «conquista regia» della unificazione italiana; tre mesi dopo moriva Cavour che, nel suo primo discorso al Parlamento dopo la proclamazione del Regno d'Italia, aveva suggerito la linea politica di Libera Chiesa in libero Stato come soluzione al problema della persistenza del potere temporale in Italia, che impediva una soluzione pacifica affinché Roma, proclamata capitale del Regno, ma di fatto ancora capitale dello Stato pontificio, potesse effettivamente diventare la capitale del nuovo Stato e che conseguentemente condizionava la partecipazione dei cattolici, sensibili alle indicazioni di Pio IX, alla vita politica nazionale. Il nuovo regno mantenne lo Statuto albertino, la costituzione concessa da Carlo Alberto nel 1848 e che rimarrà ininterrottamente in vigore sino al 1946.

    La terza guerra di indipendenza

    Quando Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia, il 17 marzo 1861, il processo di unificazione nazionale non poteva considerarsi definitivo poiché, da un lato, il Veneto, il Trentino e Trieste appartenevano ancora all'Austria e dall'altro Roma era saldamente nelle mani del Papa, così, nel 1866 avvenne la terza guerra d'indipendenza. La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e chiave di volta della sua politica estera. Le crescenti tensioni fra Austria e Prussia per la supremazia in Germania (sfociate infine nel 1866 nella guerra austro-prussiana) offrirono al neonato Regno d'Italia l'opportunità di effettuare un consistente guadagno territoriale a spese degli Asburgo. L'8 aprile 1866 il Governo Italiano (guidato dal generale Alfonso La Marmora) concluse una alleanza militare con la Prussia di Otto von Bismarck, grazie anche alla mediazione della Francia di Napoleone III. Si era creata, infatti, un'oggettiva convergenza fra i due Stati che vedevano nell'Impero Austriaco l'ostacolo ai disegni di unificazione nazionale. Secondo i piani prussiani, l'Italia avrebbe dovuto impegnare l'Austria sul fronte meridionale. Nel contempo, forte della superiorità navale, avrebbe portato una minaccia alle coste dalmate, distogliendo ulteriori forze dal teatro di guerra nell'Europa centrale.

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    Piano della terza guerra di indipendenza


    Il 16 giugno 1866 la Prussia iniziò l'ostilità contro alcuni principati tedeschi alleati dell'Austria. All'inizio del conflitto, l'esercito italiano era diviso in due armate: la prima, al comando di Alfonso La Marmora, stanziata in Lombardia ad ovest del Mincio verso le fortezze del Quadrilatero; la seconda, al comando del generale Enrico Cialdini, in Romagna, a sud del Po, verso Mantova e Rovigo. Al comando della flotta fu designato il vecchio ammiraglio Carlo Pellion di Persano. Il capo di Stato Maggiore generale La Marmora mosse per primo, incuneandosi fra Mantova e Peschiera, ove subì una sconfitta a Custoza il 24 giugno. Cialdini, al contrario, per tutta la prima parte della guerra non assunse alcuna posizione offensiva e non assediò neppure la fortezza austriaca di Borgoforte, a nord del Po. Custoza segnò un generale arresto delle operazioni, con gli Italiani che si riorganizzavano nel timore di un contrattacco austriaco. Gli Austriaci ne approfittarono per compiere due piccole offensive in Valtellina (operazioni in Valtellina) e in Val Camonica (battaglia di Vezza d'Oglio). Tuttavia, a seguito di alcune importanti vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di Sadowa del 3 luglio 1866, gli Austriaci decisero di far rientrare a Vienna uno dei tre corpi d'armata schierati in Italia e diedero priorità alla difesa del Trentino e dell'Isonzo. Nelle settimane che seguirono, a Enrico Cialdini fu quindi affidato il grosso dell'esercito. Egli seppe guidare l'avanzata italiana da Ferrara a Udine: passò il Po e occupò Rovigo l'11 luglio, Padova il 12 luglio, Treviso il 14 luglio, San Donà di Piave il 18 luglio, Valdobbiadene e Oderzo il 20 luglio, Vicenza il 21 luglio, Udine il 26 luglio. Nel frattempo i volontari di Giuseppe Garibaldi si erano spinti dal Bresciano in direzione della città di Trento aprendosi la strada il 21 luglio durante la battaglia di Bezzecca, mentre una seconda colonna italiana guidata da Giacomo Medici arrivava, il 25 luglio, in vista delle mura di Trento. Queste ultime vittorie italiane vennero tuttavia oscurate, nella coscienza collettiva, dalla sconfitta della Marina a Lissa il 20 luglio. Il 9 agosto Garibaldi rispose all'ordine di ritirarsi dal Trentino, con il celebre e celebrato «Obbedisco». L'esito generale della guerra fu determinato dalle importanti vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di Sadowa del 3 luglio 1866, ad opera del generale von Moltke. La cessazione delle ostilità venne sancita con l'Armistizio di Cormons, il 12 agosto 1866, seguito il 3 ottobre 1866 dal trattato di Vienna.
    Secondo i termini del trattato di pace, l'Italia guadagnò Mantova e l'intera antica terraferma veneta (che comprendeva l'attuale Veneto e il Friuli occidentale). Rimanevano in mano austriaca il Trentino, il Friuli orientale, la Venezia Giulia e la Dalmazia. In considerazione della pessima condotta italiana in guerra, gli austriaci ottennero di consegnare le province perdute alla Francia, che ne avrebbe fatto dono al Regno d'Italia. Il 4 novembre 1866 i Savoia ebbero consegnata dagli Asburgo la Corona Ferrea (simbolo della sovranità sull'Italia), già usata dai re longobardi, dagli imperatori del Sacro Romano Impero Germanico e dallo stesso Napoleone III. La corona tornò così alla sua sede storica nel Duomo di Monza. L'annessione al Regno d'Italia venne sancita da un plebiscito (a suffragio universale maschile) svoltosi il 21 e 22 ottobre, anche se già il 19 ottobre in una stanza dell'hotel Europa sul Canal Grande il generale Leboeuf (plenipotenziario francese e "garante" dello svolgimento della consultazione) firmò la cessione del Veneto all'Italia. Prima ancora del plebiscito le terre venete erano già state cedute ufficialmente al Regno d'Italia; "la Gazzetta di Venezia" il giorno successivo ne aveva dato notizia, in pochissime righe: "Questa mattina in una camera dell'albergo Europa si è fatta la cessione del Veneto". Il 7 novembre 1866, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale dell'esito del plebiscito, Vittorio Emanuele II compì una visita solenne a Venezia. Le salme dei fratelli Bandiera e di Domenico Moro rientrarono il 18 giugno 1867, quella di Daniele Manin il 22 marzo 1868.

    Roma capitale

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    La breccia delle mura a Porta Pia


    Seppure alla proclamazione del Regno d'Italia il 17 marzo 1861 fosse stata indicata Roma come "capitale morale" del nuovo Stato, la città rimaneva la sede dello Stato Pontificio.[80] Alcune terre papali (la Romagna) erano già state annesse con i plebisciti seguiti alla Seconda Guerra d'Indipendenza; altre (Marche ed Umbria) erano state perse dal papa in seguito alla Battaglia di Castelfidardo, ma lo Stato della Chiesa, ridotto al solo Lazio, rimaneva sotto la protezione delle truppe francesi che continueranno a difenderlo dai due tentativi falliti di Garibaldi (giornata dell'Aspromonte e battaglia di Mentana), con la connivenza del governo italiano di Urbano Rattazzi. Solo dopo la sconfitta e cattura di Napoleone III a Sedan nella guerra franco-prussiana, le truppe italiane con bersaglieri e carabinieri in testa, il 20 settembre 1870 entrarono dalla breccia di Porta Pia nella capitale. Papa Pio IX, che si considerava prigioniero del nuovo Stato italiano, reagì scomunicando Vittorio Emanuele II, ritenendo inoltre non opportuno (non expedit), e poi esplicitamente proibendo che i cattolici partecipassero attivamente alla vita politica italiana, da cui si autoesclusero per circa mezzo secolo con gravi conseguenze per la futura storia d'Italia. Dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, nel giugno del 1871 la capitale d'Italia, già trasferita - in ottemperanza alla Convenzione di settembre (1864) - da Torino a Firenze, divenne definitivamente Roma. Il 20 settembre venne quindi fissato come festa nazionale, simbolo della conclusione, fino a quel momento, del periodo risorgimentale. La festività venne abolita nel 1929, con i Patti Lateranensi.

    L'ideale conclusione e il completamento territoriale

    Dopo la fine della Grande Guerra una consolidata ottica storiografica iniziò ad individuare in quest'ultima la conclusione del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, per via del ricongiungimento con le terre irredente di Venezia Tridentina, Venezia Giulia, nonché la città di Zara e le attribuì quindi il nome di quarta guerra di indipendenza. La città di Fiume venne unita all'Italia nel 1924, dopo il Trattato di Rapallo, in seguito alle breve esperienza della Reggenza italiana del Carnaro, mentre per la Dalmazia, esclusa Zara, le aspirazioni degli irredentisti non furono mai raggiunte, escluso il breve periodo di occupazione italiana durante la seconda guerra mondiale.

    I problemi del nuovo Stato italiano

    Molti e gravi furono i problemi che il nuovo Stato dovette affrontare.

    Nord e Sud

    Discordando con l'affermazione di Massimo D'Azeglio «Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani», Cavour realisticamente scriveva che non solo gli italiani ma neppure l'Italia era "fatta": «Il mio compito è più complesso e faticoso che in passato. Fare l'Italia, fondere assieme gli elementi che la compongono, accordare Nord e Sud, tutto questo presenta le stesse difficoltà di una guerra con l'Austria e la lotta con Roma». Cavour ben sapeva come si fosse giunti all'unificazione in soli due anni grazie all'aiuto di circostanze favorevoli interne ed internazionali. Ora, tuttavia, si trattava di sanare quella che alcuni avevano definito una forzatura storica, un miracolo italiano. La nuova Italia aveva messo assieme popolazioni eterogenee per storia, per lingue parlate, per tradizioni ed usanze religiose (la sensibilità e gli usi legati al cattolicesimo erano differenti nelle varie parti d'Italia). I rappresentanti del governo inviati al Sud da Cavour per una relazione sulle condizioni del Mezzogiorno rimasero colpiti di fronte all'arretratezza delle popolazioni meridionali: Luigi Carlo Farini, inviato a Napoli in qualità di Luogotenente, descriveva la situazione a Cavour con queste parole: «Altro che Italia! Questa è Africa. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile».

    Le condizioni del nuovo Regno

    Le condizioni di tutta l'Italia si presentavano arretrate rispetto agli stati industrializzati dell'Europa occidentale. La rete ferroviaria nel 1861 consisteva in appena 2100 chilometri di binari che in più erano stati progettati in modo di avere uno scartamento tale da impedire, per ragioni militari, il passaggio dei confini di uno Stato all'altro. Molto alta la mortalità infantile, l'igiene precaria causava ricorrenti epidemie di colera, diffusa la malaria e la pellagra. L'analfabetismo raggiungeva una percentuale nazionale del 75%, con punte del 90% in alcune zone del paese. L'isolamento diplomatico e le minacce austriache imponevano per la difesa il rafforzamento dell'esercito e della marina. La soluzione di questi problemi comportò un grande impegno finanziario per il nuovo Stato che dovette introdurre nel 1868 la tassa sul macinato, un'«imposta progressiva sulla miseria», una vera e propria tassa sul pane, fino ad allora sconosciuta nelle regioni del Centro e del Nord dove causò la ribellione dei contadini emiliani. Quintino Sella, ministro delle finanze del Regno d'Italia, che l'aveva con altri ideata, divenne nell'opinione popolare «l'affamatore del popolo». L'abolizione delle dogane tra i vari stati comportò il fallimento delle piccole attività artigianali impossibilitate a reggere la concorrenza con la produzione industriale del Nord.

    Il brigantaggio

    « A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso. »
    (Massimo D'Azeglio)

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    Carmine Crocco, il più noto brigante postunitario


    I dubbi espressi da D'Azeglio (briganti o non briganti) apparivano superati dalla storiografia risorgimentale che riprese la definizione di brigantaggio usata dallo stesso governo del Regno d'Italia per mascherare agli occhi degli stati europei le gravi difficoltà politiche della avvenuta unificazione come una manifestazione di semplice criminalità. Ad esempio lo storico Francesco Saverio Sipari, insisteva nel considerare l'origine sociale del fenomeno, quando nel 1863 scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata.» Così anche Giustino Fortunato lo considerò «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali». Lo stesso Benedetto Croce vede nel brigantaggio l'ultimo sostegno di una monarchia, quella borbonica, che ancora una volta aveva chiamato in suo aiuto «...o piuttosto a far le sue vendette, le rozze plebi, e non trovando altri campioni che truci e osceni briganti...». Accanto alla miseria, alcuni invece identificarono nel brigantaggio un fenomeno di resistenza al nuovo stato italiano. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse: «I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli.». Alla fine gran parte degli storici hanno inquadrato tale fenomeno come espressione di un disagio autentico, manifestatosi con le forme di una vera e propria guerra civile (1861-1865). In realtà il brigantaggio era nato e prosperava nel Mezzogiorno ben prima dell'annessione al Regno d'Italia, ma si era sviluppato ulteriormente negli anni sessanta dell'Ottocento in seguito all'invio di un gran numero di reparti dell'esercito (Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni... in Massimo D'Azeglio, Op.cit.) Che si trattasse di un fenomeno ben radicato è dimostrato infine dal fatto che si ritenne necessario l'intervento dell'esercito regio e l'emanazione di leggi speciali (la legge Pica 1863), che applicavano la legge marziale nei territori del Mezzogiorno italiano. La ricerca storica più recente ha contribuito a mettere in luce gli aspetti politici che motivarono la resistenza delle popolazioni meridionali prima nei confronti dei Borbone, poi del Regno d'Italia (con le conseguenti repressioni), superando definitivamente il modello che ha tentato per decenni di liquidare l'insorgenza meridionale come fenomeno esclusivamente banditesco. La complessa problematica legata a tale resistenza non fu estranea (insieme ad altre concause) alla nascita della Questione meridionale.

    Decentramento e accentramento

    Cavour secondo i principi del liberalismo inglese era favorevole al decentramento:
    « Il prof. E. Amari [autonomista siciliano], dottissimo giureconsulto come egli è, riconoscerà, io lo spero, che noi siamo non meno di lui amanti della discentralizzazione, che le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province. »


    In tal senso egli aveva presentato un progetto di legge con Farini e Minghetti il 13 marzo 1861 che «consisteva nel riunire insieme in consorzi obbligatori e permanenti quelle province che fossero più affine tra loro per natura di luogo, per comunanza d'interessi, di leggi, di abitudini.» Il disegno di legge non poté essere sottoposto alla Camera per la morte improvvisa di Cavour e quando Minghetti presentò un analogo progetto di legge dopo un lungo dibattito fu bocciato. Il progetto federalista di Minghetti prevedeva: «...un ordinamento che consenta di conservare le tradizioni e i costumi delle popolazioni locali. Ad ogni Grande Provincia [Regione] dovrà spettare il potere legislativo e l'autonomia finanziaria per quanto riguarda i lavori pubblici, l'istruzione, la sanità, le opere pie e l'agricoltura. Le Grandi Province e i Comuni dovranno ampliare...le rispettive basi elettorali estendendo il diritto di voto a tutti...senza escludere gli analfabeti. I sindaci non saranno più di nomina regia ma dovranno essere nominati dal consiglio comunale regolarmente eletto. Allo Stato spetteranno soltanto la politica estera, la difesa, i grandi servizi di utilità nazionale (ferrovie, poste, telegrafi e porti), nonché un'azione di vigilanza e controllo sull'operato degli enti locali.» La nuova classe politica successa alla morte di Cavour nutrendo grandi timori che la recente unità fosse messa in pericolo da sommovimenti interni preferì imboccare la strada dell'accentramento autoritario estendendo a tutto il paese il sistema comunale e provinciale del Regno di Sardegna. L'Italia venne divisa in province sotto il controllo dei prefetti e i consigli comunali elettivi furono soggetti a sindaci nominati dal sovrano. Come scrive Candeloro: «Fare una sola regione del Mezzogiorno continentale sembrava pericoloso per l'unità, ed era d'altra parte difficile dividerlo in regioni che avessero una certa vitalità, poiché nel Mezzogiorno non erano esistiti Stati regionali e di conseguenza, non vi erano allora, oltre Napoli, delle città adatte ad essere centri regionali.»

    L'assenza delle masse contadine e il contrasto città-campagna

    Un filone di critica storiografica, elaborando le analisi che fece Antonio Gramsci nei suoi quaderni del carcere, che partì dalle considerazioni del meridionalista Gaetano Salvemini sulla non soluzione della questione contadina legata alla non soluzione della questione meridionale, ha sviluppato un'interpretazione che sostiene come nel Risorgimento italiano fosse stata assai limitata la partecipazione della masse popolari, soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato l'unità nazionale italiana e come il Risorgimento possa essere considerato come una rivoluzione mancata. «Quanto alla partecipazione contadina delle masse subalterne alle vicende della unificazione essa continuò ad essere assai modesta». Lo storico Franco Della Peruta constata come il problema dell'assenza delle masse contadine al movimento risorgimentale si ponesse sin dall'indomani dei moti del '48 alla coscienza degli stessi contemporanei di quegli avvenimenti. Fin dal 1849, contrariamente a quanto sosteneva Mazzini, che cioè la questione sociale dovesse essere risolta solo dopo aver affrontato il problema dell'unità nazionale, un mazziniano, rimasto anonimo, scriveva sulla mazziniana "Italia del popolo": «la politica di classe adottata dal governo provvisorio milanese [...] causò la sopravvenuta freddezza dei contadini di Lombardia verso la guerra nazionale». Carlo Cattaneo, ricordando le Cinque giornate milanesi, scriveva: «Si può rimproverare agli amici della libertà [...] di non aver chiamato il popolo dei sobborghi e delle campagne alla pratica delle armi». Lo stesso Carlo Pisacane, fra i primi, assieme a Giuseppe Ferrari a introdurre concetti socialisti nelle ideologie risorgimentali, nel 1851 nell'Appendice alla "La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49" ribadiva l'idea della necessità di una vasta partecipazione contadina al progetto unitario e che si dovesse «far comprendere ai contadini che è loro interesse cambiare la vanga col fucile» ma questo non sarebbe mai avvenuto poiché, come scrisse Giuseppe Ferrari lo stesso anno, osservando i moti popolari europei, «non vale parlare di Repubblica se il popolo sovrano muore di fame». L'indifferenza dei contadini, se non l'ostilità nei confronti di tutto ciò che riguardava la città e i "signori", risaliva come sosteneva Antonio Gramsci, ed in epoca più recente gli storici Emilio Sereni e Giorgio Candeloro, al periodo della formazione dei Comuni italiani quando, dopo aver attirato i contadini in città ("l'aria delle città rende liberi"), affrancandoli ed usandoli come operai per le manifatture, sottoposero la campagna alla città con un regime vincolistico dei prezzi dei prodotti agricoli. Lo storico Girolamo Arnaldi osserva che nella seconda guerra d'indipendenza (1859) " i soldati dell'esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani... non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tant'è vero che ai volontari provenienti dalle altre regioni d'Italia rivolgevano la domanda: "Vieni dall'Italia?". Lo stesso Cavour si scandalizzava che i volontari arruolati a Torino provenienti dal Regno delle Due Sicilie fossero appena poche decine, mentre tra i 1089 garibaldini partiti da Quarto si contavano 86 volontari provenienti dal regno borbonico, pari all'8% del totale dei volontari e a poco meno del 10% degli 894 volontari affluiti da regioni non appartenenti al regno sabaudo preunitario. Anzi, in buona parte, la classe contadina meridionale entrerà nella storia proprio battendosi contro l'unità ormai raggiunta: è il fenomeno del brigantaggio postunitario che, secondo Isnenghi, "...può considerarsi pressoché l'unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento". Più articolata l'analisi di Seton-Watson sulla contrapposizione fra campagna e città: "Con l'eccezione della Sicilia, dove una vasta rivolta di contadini precedette lo sbarco di Garibaldi, poche furono le zone in cui i contadini svolsero un ruolo positivo nell'unificazione del paese: le campagne in generale rimasero passive o si mossero solo in difesa del vecchio ordine. I governi, agli occhi dei contadini, sono un male necessario, il nuovo governo italiano era particolarmente odioso perché era stato imposto dai 'signori' e dalle città, perché perseguitava la Chiesa, aumentava le imposte ma, soprattutto perché era efficiente"

    Le cinque giornate di Milano

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    Stampa d'epoca mostrante una barricata eretta per bloccare una strada e i rivoltosi in armi a suo presidio

    Uno degli avvenimenti abitualmente indicati dalla storiografia classica come un esempio della partecipazione popolare al fenomeno risorgimentale è quello della rivolta milanese del 1848 quando i cittadini milanesi combatterono in massa gli austriaci innalzando il vessillo tricolore ed addirittura, dopo che Carlo Alberto aveva firmato la resa con gli austriaci e si disponeva ad abbandonare Milano, incendiarono le loro case vicine alle mura per difendere meglio la città dal ritorno delle truppe di Radetzky. Alcuni storici osservano che si trattava dei patrioti cittadini milanesi e non del "popolo" dei contadini che viveva nella campagna milanese, al di fuori della città ove ci furono episodi di partecipazione contadina alla lotta antiaustriaca ma prevalentemente su costrizioni operate dai parroci e dai proprietari terrieri; e dopo il ritiro dei piemontesi al di là del Ticino, si alzò nelle campagne il grido di "Abbasso i signori, abbasso i cittadini, viva Radetzky".
    Mettendo da parte le tematiche delle libertà civili e della condizione di sottomissione governativa verso Vienna, il ceto contadino non aveva motivazioni per voler cacciare gli austriaci in quanto il governo di Vienna li aveva sempre favoriti con una buona amministrazione e con sgravi fiscali. Gli austriaci avevano compreso che i loro avversari erano i liberali italiani della classe borghese emergente che voleva svincolarsi della loro oppressiva tutela e formare quel mercato unitario italiano che sottintendeva i proclamati ideali patriottici. Per conservare il dominio nei territori del suo impero il governo austriaco si accattivava i favori delle masse contadine, giungendo a minacciare contro i liberali latifondisti una riforma agraria a vantaggio dei contadini.

    I Cinque Martiri di Gerace

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    Michele, 24 anni, Gaetano, 24 anni, Pietro, 28 anni, Domenico, 24 anni e Rocco, il più giovane, 23 anni, tutti cattolici, vissuti nella Calabria dove furono scritte appassionate e sconosciute pagine di storia risorgimentale. Passati alla Storia, sempre troppo poco conosciuta, come i cinque martiri di Gerace, Michele Bello, Gaetano Ruffo, Pietro Mazzoni, Domenico Salvadori e Rocco Verduci, sono stati ricordati per il loro sacrificio per la Patria Italia proprio a Gerace nel 164° anniversario della loro fucilazione per ordine del governo borbonico. Vennero infatti giustiziati il 2 ottobre del 1847 dopo avere ispirato e guidato l’azione insurrezionale di un esercito di oltre 700 persone lungo il litorale locrideo. Morti sull’altare della libertà, negata, di credere nella libertà, sacrificati perché animati dal desiderio di uguaglianza e pari dignità, valori che poi la stessa Costituzione, cento anni dopo, avrebbe consacrato come fondamenti della comunità dello Stato Italiano. Dunque giovani ma lungimiranti, impulsivi ma illuminati forse in un tempo che ancora non era maturo per accogliere una simile eredità. Una passione civile che li rese precursori del Risorgimento, antesignani dei moti del 1848 e dei fermenti che portarono all’Unità del Paese nel 1861. Appartenenti a famiglie facoltose, si erano trasferiti a Napoli per studiare e qui ebbero modo di lasciarsi contaminare da ideali patriottici, ritenuti sovversivi, che poi fecero confluire in un piano insurrezionale ignorato dalla storia ufficiale che arrivò a Reggio Calabria e a Messina. Una ribellione tutt’altro che disarticolata, senza vittime, che però fu soffocata nel sangue con la decapitazione di Domenico Romeo a Reggio Calabria e la sollevazione stroncata sul nascere nel messinese. I cinque patrioti calabresi, furono traditi da Nicola Ciccarelli di Caulonia, nella notte tra il 9 e il 10 settembre, arrestati e processati "per essersi macchiati di lesa maestà e per aver commesso atti prossimi all'esecuzione di detti misfatti". Furono poi fucilati il 2 ottobre 1847 sulla Piana di Gerace dove oggi sorge un monumento inaugurato il 7 giugno 1931, sul quale è collocato un pannello bronzeo raffigurante la fucilazione degli Eroi, opera dello scultore Francesco Jerace. I loro corpi furono gettati della fossa comune denominata ‘la lupa’. Risparmiati, perché non ritenuti capi, Stefano Gemelli di Bianco e Giovanni Rossetti di Reggio Calabria, entrambi di 47 anni. Questo il drammatico epilogo di una storia italiana, svoltasi in Calabria, in cui, per mano di un potere dispotico e assoluto, quelle stesse libertà che accennavano ad affermarsi con la Rivoluzione Americana, prima, e Francese poi, furono brutalmente calpestate e tra queste anche quelle di Michele (Siderno 5/12/1822 - Gerace 2/10/1847), Pietro (Roccella Jonica 21/2/1819 - Gerace 2/10/1847)), Gaetano (Ardore 15/11/1822 - Gerace 2/10/1847), Domenico (Bianco 24/12/1822 - Gerace 2/10/1847) e Rocco (Caraffa del Bianco 1/8/1824 - Gerace 2/10/1847).

    Da guerra federalista a guerra regio-sabauda

    L'iniziale partecipazione popolare cittadina nelle rivoluzioni del '48 italiano fu colta dalla classe politica piemontese come l'occasione intervenire a difesa dei "fratelli" lombardi e veneti. Scriveva Lorenzo Pareto, il ministro degli esteri del Regno Sardo: «La resistenza ferma ed eroica che da più giorni fanno gli abitanti di Milano contro le truppe austriache ha commosso tutte le vicine popolazioni e altamente eccitato sino all'entusiasmo la loro simpatia.» Sembrava in quel momento potesse realizzarsi il programma neoguelfo di Vincenzo Gioberti che divenne presidente del consiglio del Regno di Sardegna nel dicembre 1848. Gioberti era convinto che l'Italia dovesse ritornare ad essere una nazione unita in una federazione di stati trovando il suo fattore di unificazione, non come predicava Mazzini nel popolo «che è un desiderio, non un fatto, un presupposto non una realtà, un nome non una cosa» ma nella religione valore questo «sommamente nostro e nazionale, perché creò la nazione ed è radicato in essa da diciotto secoli.» Il papa quindi con il suo prestigio a capo di una lega tra i vari stati difesa militarmente dal Piemonte «la provincia guerriera d'Italia». L'affluire in Lombardia di volontari per la guerra di liberazione nazionale, e tra questi Garibaldi, che respinto dal governo sardo si era messo a disposizione del governo provvisorio milanese, spinse il governo di Carlo Alberto, prima che si costituisse una repubblica a Milano, a Venezia, a Genova e persino a Torino, a dichiarare la guerra all'Austria secondo le sollecitazioni dell'aristocrazia liberale lombarda rappresentata dal capo della municipalità Gabrio Casati, timorosa che i democratici e i repubblicani, ispirati dal Cattaneo, prendessero la guida del movimento rivoluzionario, anche se Mazzini aveva messo da parte il suo programma repubblicano, sciogliendo la Giovane Italia per non intralciare la guerra di liberazione. La condotta della guerra ritardata dalla decisione di Carlo Alberto di non impegnarsi più a fondo se prima i lombardi non avessero votato con un plebiscito l'annessione al Piemonte, la dissociazione del pontefice Pio IX il 29 aprile 1848 dalla guerra nazionale, poiché come capo della cristianità era obbligato a comportarsi nei confronti di «tutte le genti, popoli e nazioni con eguale studio di paternale amore», causò lo spegnersi di quell'entusiasmo patriottico dell'opinione pubblica moderata, che inizialmente aveva portato i sovrani costituzionali di Firenze, Roma e Napoli a inviare truppe regolari in sostegno del Piemonte che ora venivano richiamate in patria. La guerra federalista diventava guerra regio-sabauda secondo le mai spente aspirazioni dei Savoia di espandersi oltre il Ticino. Ma le sconfitte militari dei piemontesi fecero crollare ogni progetto unitario. Il fallimento nel '49 del programma moderato del neoguelfismo, come avrebbe dovuto realizzarsi nella Prima guerra d'indipendenza, e di quello democratico mazziniano con la caduta delle repubbliche mazziniane di Roma e Firenze fece perdere al nostro Risorgimento gran parte del suo sentimento romantico e popolare diffusosi con l'elezione di Pio IX, il papa "liberale". Gioberti, a seguito della salita al trono di Vittorio Emanuele II non fu piu' presidente del consiglio e l'iniziativa passò nelle mani della monarchia sabauda e del conte di Cavour. L'Italia si sarebbe fatta non per virtù di popolo, poco più di un'astrazione nel pensiero mazziniano, ma con la diplomazia, con l'aiuto militare della Francia e le annessioni al Regno di Sardegna. La partecipazione effettiva delle masse popolari al processo unitario continuò ad essere assai modesta. I moderati che avevano visto sventolare le bandiere rosse sulle barricate del '48 in Francia e i democratici che ricordavano l'esito infausto della spedizione di Pisacane si accomunavano: "Da destra e da sinistra, mille sospetti e diverse ragioni di diffidenza si addensano contro le masse lontane ed estranee dei subalterni. Che cosa cela il loro silenzio? A che cosa può portare l'attivazione? Non val meglio lasciarle alla loro inerzia secolare?". Apparentemente a giudizio di alcuni storici sembravano esserci possibilità di una partecipazione popolare al movimento risorgimentale unitario considerando che «intorno al '60 ci furono nel meridione italiano diverse rivolte plebee, ma esse non erano che insurrezioni di cafoni analfabeti che sognavano la loro rivoluzione: la spartizione delle terre non l'unità d'Italia che per loro era un evento privo di senso...».

    Edited by Isabel - 1/10/2012, 11:34
     
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    Spedizione dei Mille

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    La partenza dei Mille da Quarto (Genova)

    La spedizione dei Mille è un episodio del risorgimento, avvenuto nel 1860, quando un corpo di volontari, protetto dal Regno di Sardegna, al comando di Giuseppe Garibaldi, partendo dalla spiaggia di Quarto, in Liguria, sbarcò in Sicilia, presso Marsala, e conquistò il Regno delle Due Sicilie, permettendone l'annessione al nascente stato italiano.

    Premesse

    A partire dal famoso incontro di Plombières con Napoleone III il 21 e 22 luglio 1858 e, soprattutto, dalla firma del trattato di alleanza difensiva fra Francia e Regno di Sardegna del 26 gennaio 1859, il primo ministro Cavour iniziò i preparativi per la liberazione del nord Italia e l'inevitabile guerra all'Austria.
    Il 24 aprile 1859 Cavour riuscì a farsi dichiarare guerra dall'Austria, con inizio delle ostilità il 27 aprile. La seconda guerra di indipendenza terminò l'11 luglio; i termini dell'armistizio di Villafranca riconoscevano al Regno di Sardegna la Lombardia (con l'esclusione di Mantova), ma non il Veneto, ceduto soltanto con la Terza Guerra d'Indipendenza.
    Già dal maggio 1859 le popolazioni del Granducato di Toscana, della Legazione delle Romagne (Bologna e la Romagna), del Ducato di Modena e del Ducato di Parma scacciavano i propri sovrani e reclamavano l'annessione al Regno di Sardegna, soprattutto grazie, secondo l'opinione di alcuni storici, alla sapiente azione di agenti provocatori pilotati dal Governo piemontese, mentre le popolazioni di Umbria e Marche subivano la dura repressione del governo pontificio, il cui esempio più sanguinoso fu il massacro di Perugia.
    Napoleone III e Cavour erano reciprocamente in debito: il primo poiché si era ritirato dal conflitto prima della prevista liberazione di Venezia, il secondo perché aveva consentito che i moti si estendessero ai territori dell'Italia centro-settentrionale. Lo stallo venne risolto il 24 marzo 1860, quando Cavour sottoscrisse la cessione della Savoia e del circondario di Nizza alla Francia ed ottenne in cambio il consenso dell'Imperatore all'annessione di Toscana ed Emilia-Romagna al Regno di Sardegna. Come disse Cavour all'emissario francese, i due erano divenuti "complici".

    Obiettivi e vincoli del Piemonte

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    La penisola italiana nel marzo del 1860


    Nel marzo 1860, quindi, restavano in Italia tre soli Stati: il Regno di Sardegna, con Piemonte (inclusa Aosta), Liguria, Sardegna, Lombardia (eccetto Mantova), Emilia, Romagna e Toscana; lo Stato della Chiesa, con Umbria (inclusa Rieti), Marche, Lazio (con l'intoccabile Roma) e le exclave di Pontecorvo e Benevento; il Regno delle Due Sicilie, con Abruzzo (inclusa Cittaducale), Molise, Campania (incluse Gaeta e Sora), Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, a questi si può aggiungere la piccola Repubblica di San Marino che tuttavia si mantenne sempre distante da ogni spinta unificatrice.
    A questi tre stati indipendenti bisogna aggiungere l'Impero Austriaco di Francesco Giuseppe che ancora poteva essere considerato una potenza con forti interessi nella penisola italiana, poiché possedeva intere regioni come il Veneto, il Trentino e il Friuli, oltre al territorio mantovano. Non si dimentichi, inoltre, la Francia nell'ambiguo ruolo di potenza protettrice di Roma e principale alleato del Regno di Sardegna: un'ambiguità che permise a Napoleone III di mantenere una decisiva influenza sulle cose italiane, sino all'estremo giorno di vita del suo impero (battaglia di Sedan del 1870), e che sarà determinante nel 1860.
    Napoleone III, difatti, impediva al Regno di Sardegna tanto un'azione contro l'Austria (col suo mancato sostegno), quanto un'azione contro Roma (con la sua esplicita opposizione). Restava, pertanto, ai piemontesi un unico bersaglio possibile: Napoli.
    Il Regno delle Due Sicilie, dunque, si presentava come un obiettivo, oltre che di primario interesse, anche facilmente conseguibile, e ciò per tre ordini di motivi. Prima di tutto, lo stato era guidato da un monarca giovane e inesperto (Francesco II, succeduto al padre Ferdinando II solo il 22 maggio 1859, meno di un anno prima); in secondo luogo, il reame borbonico era divenuto una presenza scomoda per la Gran Bretagna, con la quale le relazioni, inaspritesi, nel 1836, con la "questione degli zolfi", erano divenute decisamente cattive. Infine, il Regno delle Due Sicilie era caduto in una sorta di isolamento diplomatico e finì con il poter contare solamente sulle proprie forze.
    Almeno sulla carta, comunque, il regno meridionale era ancora lo stato più esteso e, teoricamente, più potente della penisola. Esso, infatti, poteva fare affidamento su un esercito (il più numeroso d'Italia) di 93000 uomini (oltre a 4 reggimenti ausiliari di mercenari) e sulla flotta più potente di stanza nel Mediterraneo (11 moderne fregate, 5 corvette e 6 brigantini a vapore, oltre a vari tipi di navi a vela). Infine, come ammoniva Ferdinando II, era difeso "dall'acqua salata e dall'acqua benedetta", cioè dal mare e dalla presenza dello Stato della Chiesa, che, protetto dalla Francia, avrebbe impedito ogni invasione via terra verso il sud.
    Particolare importanza ebbe nell'autunno-inverno del 1859 l'azione abbozzata da Francesco II, di concerto con Francesco Giuseppe, a sostegno delle rivendicazioni di Pio IX, di Leopoldo II di Toscana e dei Duchi di Modena e Parma per rientrare in possesso dei loro possedimenti in Italia centrale.
    L'iniziativa, infatti, si scontrava direttamente con gli interessi vitali di Torino e, di conseguenza, di Parigi, dal momento che Napoleone III, per giustificare la guerra all'Austria di fronte all'opinione pubblica francese, doveva annettere alla Francia i territori oggetto degli accordi di Plombières.

    Prima della spedizione

    La ricerca di un casus belli

    Il Regno di Sardegna, però, necessitava di un casus belli presentabile per attaccare il Regno delle Due Sicilie. Questa era per lo stato sabaudo, che comunque non emise mai alcuna dichiarazione di guerra nei confronti del reame borbonico, una condizione indispensabile, dal momento che, fra gli imperativi che la politica europea imponeva al Cavour, v'era presentarsi sempre come lo strumento del ripristino dell'ordine.
    L'unico accadimento che avrebbe potuto soddisfare questa esigenza era una sollevazione dall'interno. Un tale evento avrebbe provato la disaffezione delle popolazioni alla Dinastia che governava a Napoli e, soprattutto, l'incapacità di Francesco di Borbone di garantire, in forme accettabili, l'ordine pubblico nei propri domini.
    La Sicilia, come dimostrava la storia dei trascorsi decenni, era terreno fertile, e i liberali meridionali, specialmente quelli rientrati dopo l'amnistia concessa dal giovane Re, lavoravano in tal senso già da tempo.

    La situazione interna al Regno delle Due Sicilie

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    Stemma delle Due Sicilie


    Nel corso degli anni, erano state diverse le ribellioni che i Borbone avevano dovuto sedare: la rivoluzione indipendentista siciliana del 1820, la rivoluzione calabrese del 1847, la rivoluzione indipendentista siciliana del 1848 e quella calabrese dello stesso anno, ed il movimento costituzionale napoletano del 1848.
    Dal punto di vista militare, fondamentale era stata la vicinanza con l'Austria. Per due volte, infatti, i Borbone avevano riguadagnato il trono in seguito all'intervento degli eserciti austriaci: nel 1815 l'austriaco Federico Bianchi sconfisse l'esercito napoletano di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, nella battaglia di Tolentino ed, ancora, nel 1821 l'austriaco Johann Maria Philipp Frimont sconfisse un secondo esercito napoletano, quello di Guglielmo Pepe, nella battaglia di Rieti e in quella di Antrodoco.
    Nel 1860, tuttavia, la situazione appariva di gran lunga più favorevole ai Borbone: sin dal 1821, infatti, all'esercito era dedicata costante attenzione economica da parte dei regnanti e, nel complesso, rinforzato da reparti composti da arruolati stranieri, appariva sicuramente fedele alla casa regnante.
    I liberali napoletani, comunque, non avevano forza sufficiente neanche ad imporre una costituzione, nemmeno dopo Solferino. Essi erano, però, presenti in buon numero nelle alte cariche dell'esercito e dell'Armata di Mare (che, infatti, non mostrò alcun fervore nel corso dell'intera campagna contro Garibaldi).
    Il popolo delle provincie continentali, invece, era generalmente vicino alla dinastia borbonica, come avevano dimostrato il successo del movimento sanfedista, che nel 1799 aveva rovesciato la Repubblica Napoletana, con strage dei giacobini del regno, e la resistenza antifrancese del periodo 1806-1815. Tale vicinanza alla casa regnante sarà dimostrata anche dalle dimensioni del successivo brigantaggio postunitario considerato meramente una rivolta contro l'annessione dagli storici revisionisti.

    I mazziniani e la Sicilia

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    Rosolino Pilo


    L'unica delle forze opposte ai Borbone che mostrasse la volontà di scendere in armi, in quel 1860, era l'autonomismo siciliano. I ricordi della lunga rivoluzione del 1848 erano ancora vividi, la repressione borbonica era stata particolarmente dura e nulli i tentativi del governo napoletano di giungere ad un accomodamento politico. Inoltre, l'insofferenza non era limitata alle classi dirigenti, ma coinvolgeva, anche se con motivazioni ed obiettivi differenti, una larga fascia della popolazione cittadina e rurale: congiuntura pressoché unica nel corso dell'intero Risorgimento. A dimostrazione di ciò, infatti, vi sono le adesioni di volontari alle schiere garibaldine da Marsala a Messina, sino al Volturno.
    Molti dei quadri dirigenti della rivoluzione del 1848 (tra cui Rosolino Pilo e Francesco Crispi) erano espatriati a Torino, avevano partecipato con entusiasmo alla seconda guerra di indipendenza e avevano maturato un atteggiamento politico decisamente liberale e unitario. Proprio i mazziniani, invero, vedevano nella Sicilia insurrezionalista, nell'intervento di Garibaldi e nella monarchia sabauda gli elementi fondanti per il successo della causa unitaria. Il 2 marzo 1860, infatti, Giuseppe Mazzini scriveva una lettera ai Siciliani incitandoli alla ribellione e dichiarava: "Garibaldi è vincolato ad accorrere".
    In particolare, Rosolino Pilo ebbe un preciso ruolo nel porre le basi per una nuova sollevazione in Sicilia. Sempre nel mese di marzo, questi, intenzionato a salpare alla volta dell'isola, si era rivolto a Garibaldi, prima chiedendo armi e poi invitando il nizzardo ad un intervento diretto al di là dello stretto. Garibaldi, però, si era tirato indietro ritenendo inopportuno qualsiasi moto rivoluzionario che non avesse avuto buone probabilità di successo. Il nizzardo avrebbe guidato una rivoluzione solo se a chiederglielo fosse stato il popolo ed il tutto fosse avvenuto in nome di Vittorio Emanuele II. Solo con il contributo delle popolazioni locali e l'appoggio del Piemonte, infatti, Garibaldi avrebbe contenuto il rischio di un fallimento, evitando risultati simili a quelli avuti in precedenza dai fratelli Bandiera o da Carlo Pisacane. Pur non avendo ottenuto l'immediato sostegno di Garibaldi, il 25 marzo Rosolino Pilo partì comunque per la Sicilia con l'intento di preparare il terreno per la futura spedizione. Accompagnato da Giovanni Corraro, anch'egli mazziniano, il Pilo giunse nel messinese e prese immediatamente contatti con gli esponenti delle famiglie più importanti. In questo modo egli si assicurò l'appoggio dei latifondisti. I baroni, infatti, una volta sbarcato il corpo di spedizione, avrebbero rese disponibili le bande che erano al loro servizio, i cosiddetti picciotti.

    La rivolta della Gancia

    A Palermo, il 4 aprile, si accese la fiamma della rivolta con un episodio, subito represso, che ebbe tra i protagonisti, sul campo, Francesco Riso e, lontano dalla scena, Francesco Crispi, che coordinò l'azione dei rivoltosi da Genova. Nonostante il fallimento, l'accaduto diede il via ad una serie di manifestazioni ed insurrezioni tenute in vita dalla famosa marcia di Rosolino Pilo da Messina a Piana dei Greci, fra il 10 ed il 20 aprile. A coloro che incontrava lungo il percorso il Pilo annunciava di tenersi pronti "…che verrà Garibaldi". La notizia della sollevazione fu confermata sul continente da un telegramma cifrato inoltrato da Nicola Fabrizi il 27 aprile. Il contenuto del messaggio, non eccessivamente incoraggiante, accrebbe le incertezze di Garibaldi tanto da indurlo a rinunciare all'idea di una spedizione. Tale fu la delusione tra i sostenitori dell'impresa, che Francesco Crispi, che aveva decodificato il telegramma, sostenendo di aver commesso un errore, ne fornì una nuova versione. Quest'ultima, molto probabilmente falsificata dal Crispi, convinse il nizzardo ad intraprendere la spedizione.

    Il ruolo di Cavour

    Cavour riteneva rischiosa l'idea di una spedizione che considerava dannosa per i rapporti con la Francia, essenzialmente perché sospettava che l'obiettivo di Garibaldi fosse Roma. Il conte, pertanto, si sarebbe decisamente opposto ad essa, ma il suo prestigio era stato scosso dalle cessioni di Nizza e Savoia e non si sentiva abbastanza forte per manifestare il proprio dissenso.
    Per di più, Garibaldi, nonostante fosse vicino agli ambienti repubblicani e rivoluzionari, era, in tale prospettiva, già da tempo in contatto con Vittorio Emanuele II. Il nizzardo, infatti, a dispetto delle sue idee repubblicane, ormai da 12 anni aveva accettato di collaborare con Casa Savoia; d'altronde, le contingenze erano tali che lo stesso Mazzini poteva scrivere: "non si tratta più di repubblica o monarchia: si tratta dell'unità nazionale... d'essere o non essere".
    Per Cavour, invece, Garibaldi, pur godendo dell'illimitata stima dell'opinione pubblica liberale italiana, era fonte di grandi preoccupazioni. Solo alla fine del 1859, infatti, questi si era portato in Romagna con l'intento di invadere le Marche e l'Umbria, rischiando di scatenare le ire di Parigi. Il nizzardo, però, rappresentava anche una "opportunità", poiché attraverso di lui si sarebbe potuta originare la "provvidenziale" sollevazione dall'interno, che avrebbe sconvolto il Regno delle Due Sicilie e "costretto" il Regno di Sardegna ad intervenire per garantire l'ordine pubblico. Il conte, pertanto, decise di assumere un atteggiamento attendista ed osservare l'evolversi degli avvenimenti, in modo da poter profittare di eventuali sviluppi favorevoli al Piemonte: solo quando le probabilità di un esito positivo della spedizione appariranno considerevoli, Cavour appoggerà apertamente l’iniziativa.
    In quest'ottica, il 18 aprile, in seguito ai moti anti-borbonici, Cavour inviò in Sicilia due navi da guerra: il Governolo e l'Authion. Ufficialmente i due vascelli avevano il compito di proteggere i cittadini piemontesi presenti sull'isola. L'effettivo incarico, però, consisteva nel valutare accuratamente le forze degli opposti schieramenti. Nello stesso tempo, il primo ministro piemontese riuscì, attraverso Giuseppe La Farina (che sarà inviato in Sicilia dopo lo sbarco, per controllare e mantenere i contatti con Garibaldi), a seguire tutte le fasi preparatorie della spedizione, finché egli stesso, il 22 aprile, non si recò a Genova per rendersi conto di persona della situazione. Gli ultimi accordi fra Cavour e Vittorio Emanuele II vennero presi in un incontro a Bologna, il 2 maggio.

    Il corpo di spedizione

    Nel frattempo l'organizzazione della forza di spedizione era in pieno svolgimento. Garibaldi, reduce dalla brillante campagna di Lombardia con i Cacciatori delle Alpi, aveva dimostrato le proprie capacità di capo militare, affrontando con un esercito leggero, costituito da volontari, un esercito regolare. Anche per questa spedizione, dunque, avrebbe fatto ricorso all'arruolamento di volontari disposti a combattere sotto la sua guida.
    L'armamento ed i quadri [Chiarire: nell'elenco dei Mille non sono presenti quadri provenienti dall'esercito piemontese], qualora non attinti dai Cacciatori, sarebbero giunti dall'esercito piemontese, così come i finanziamenti. Le somme stanziate dal Piemonte per la spedizione, infatti, ammontarono a lire 7.905.607 e saranno computate, a impresa terminata, nel bilancio del nuovo stato unitario. In ogni caso, l'origine dei fondi avrebbe potuto essere, comunque, attribuita alla sottoscrizione nazionale "per un milione di fucili", iniziata già nell'ottobre 1859 e sostenuta dai comuni e enti nazionalisti, i quali avevano già raccolto notevoli somme: ad esempio la Camera di Commercio di Milano, facendosi voce della borghesia ambrosiana, raccolse 70.226,85 lire per l'acquisto dei fucili.
    Il corpo di spedizione, al momento della partenza da Quarto, era composto da 1162 uomini. I Mille provenivano prevalentemente dalle regioni centro-settentrionali e, tra essi, non c'erano solo italiani, ma anche combattenti stranieri. La compagine aveva anche un cappellano, Alessandro Gavazzi, che, criticando radicalmente l'istituzione del Papato, divenne protestante. Il più giovane del gruppo, imbarcatosi all'età di 10 anni, 8 mesi e undici giorni, assieme al padre Luigi, fu Giuseppe Marchetti, nato a Chioggia il 24 agosto 1849.

    Il Piemonte e il Lombardo

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    Il piroscafo Piemonte


    Il 3 maggio, a Modena, venne siglato un primo accordo, attraverso il quale si rendevano disponibili ai garibaldini i due vascelli con i quali avrebbero raggiunto la Sicilia. In rappresentanza dello stato sabaudo erano presenti l'avvocato Ferdinando Riccardi e il colonnello Alessandro Negri di San Front, entrambi riconducibili ai servizi segreti piemontesi, avendo essi ricevuto l'incarico dall'Ufficio dell'Alta Sorveglianza politica e dell'Ufficio Informazioni della Presidenza del Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna.
    Il giorno seguente, il 4 maggio, l'intesa fu formalizzata: veniva stipulato, con rogito del notaio Gioacchino Vincenzo Baldioli, nel suo studio di via Po a Torino, il contratto con il quale il Regno di Sardegna acquistava "in via temporanea" dall'armatore Rubattino (attraverso la mediazione di un dipendente della compagnia, Giovanni Battista Fauché) due vapori, il Piemonte e il Lombardo, facendone beneficiario Giuseppe Garibaldi (rappresentato nella circostanza da un suo uomo di fiducia, Giacomo Medici), mentre garanti del debito si costituivano il re sabaudo e il suo primo ministro.
    La sera del 5 maggio, meticolosamente sorvegliata dalle autorità piemontesi, la spedizione salpò dallo scoglio di Quarto, simulando, come da accordi, il furto delle due navi. Oltre al prezzo d'acquisto dei vascelli, infatti, alla società di navigazione Rubattino sarà anche riconosciuta, con decreto dittatoriale di Garibaldi del 5 ottobre 1860, la somma di 1,2 milioni di lire come risarcimento per la perdita del Piemonte e del Lombardo, valutati 750 000 lire, e del piroscafo Cagliari, valutato 450 000 lire (che era stato adoperato per la fallita spedizione di Pisacane nel 1857 e poi restituito all'armatore dal governo borbonico).

    Viaggio di trasferimento

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    Targa in ricordo della sosta dei mille a Porto Santo Stefano il 9 maggio 1860


    I volontari, che al momento della partenza ammontavano a 1162, erano armati di vecchi fucili e privi di munizioni e polvere da sparo. Secondo quanto riferito da Giuseppe Cesare Abba, infatti, i due vapori piemontesi avrebbero dovuto incontrarsi nella notte con alcune scialuppe che avevano il compito di rifornirli, ma non vi riuscirono a causa di misteriose e controverse circostanze.
    Da ciò conseguì la decisione di Garibaldi di fermarsi il 7 maggio a Talamone, dove recuperò, oltre alle munizioni, anche tre vecchi cannoni ed un centinaio di buone carabine presso la guarnigione dell'Esercito del Regno di Sardegna di stanza nel forte toscano. Una seconda sosta fu effettuata il 9 maggio, nel vicino Porto Santo Stefano, per rifornimento di carbone. Formalmente Garibaldi ottenne armi e carbone poiché li aveva pretesi nella sua qualità di maggiore generale del Regio Esercito.
    Durante la sosta sulle coste toscane il nizzardo ordinò al colonnello Callimaco Zambianchi e a 64 volontari di distaccarsi dalla spedizione e tentare un'insurrezione nello Stato Pontificio. Zambianchi, dopo aver reclutato altri 200 uomini della zona, si inoltrò nel territorio papalino, causando alcuni saccheggi. Il colonnello pontificio Georges de Pimodan, venuto a conoscenza della presenza dei garibaldini, giunse a contrastarli presso Orvieto con una sessantina di carabinieri. Dopo un breve scontro, Zambianchi e i suoi uomini batterono in ritirata, poiché de Pimodan ebbe come supporto i contadini e si previde l'imminente arrivo degli zuavi.
    Cavour, preoccupato per l'eventuale reazione della Francia, alleata dello Stato Pontificio, dispose il 10 maggio l'invio di una nave nelle acque della Toscana e ordinò l'arresto di Zambianchi. Il colonnello dichiarerà che il suo vero obiettivo era l'Abruzzo. Il piano di Zambianchi sarebbe consistito nel distrarre le truppe borboniche, facendo loro credere che Garibaldi volesse attraversare i territori papalini per attaccare l'Abruzzo. Così facendo, il governo borbonico non sarebbe accorso a difendere le coste siciliane con tutte le sue forze, permettendo a Garibaldi di giungervi senza particolari complicazioni.
    Oltre ai 64 volontari staccatisi dal gruppo, 9 mazziniani abbandonarono la spedizione quando compresero che si sarebbe combattuto per la monarchia sabauda, mentre i restanti 1089 proseguirono nel viaggio.
    Nei giorni precedenti, tra il 7 e l'8 maggio, il comandante della marina sarda Carlo Pellion di Persano, alla guida di una divisione composta da tre pirofregate, aveva ricevuto da Cavour, tramite il governatore di Cagliari, l'ordine di arrestare la spedizione dei Mille solo se i legni di Garibaldi avessero fatto scalo in un porto della Sardegna, ma di non inseguirli se fossero stati incrociati in mare. L’11 maggio, in seguito alla richiesta del Persano di ricevere conferma degli ordini ricevuti, il conte di Cavour rispose con un telegramma ribadendo le disposizioni del governo piemontese.
    Oltre ai legni piemontesi, altre imbarcazioni solcavano le acque del Tirreno: infatti, il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet della Royal Navy, aveva ricevuto ordine, dal suo governo, di assumere il comando del grosso delle unità navali della sua flotta e di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti delle Due Sicilie, oltre che a scopo intimidatorio e di raccolta di informazioni, anche al fine di attenuare la capacità di reazione borbonica.

    Lo sbarco a Marsala

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    Lo sbarco dei Mille a Marsala da un disegno di un ufficiale osservatore, a bordo di una nave inglese


    I due vapori, per evitare navi borboniche, avevano seguito una rotta inconsueta, che li aveva portati fin quasi sotto le coste tunisine. I Mille, intenzionati a volgere verso Sciacca, puntarono poi a Marsala, poiché informati dagli equipaggi di un veliero inglese e di una paranza da pesca siciliana che il porto della città non era protetto da vascelli borbonici. L'assenza di borbonici convinse Garibaldi a dirigersi verso Marsala, dove i vapori piemontesi giunsero nelle prime ore del pomeriggio.
    Lo sbarco dei garibaldini fu favorito da diverse circostanze, quali la presenza nel porto di Marsala di due navi da guerra della Royal Navy, giunte per proteggere le imprese inglesi della zona, come i magazzini vinicoli Woodhouse e Ingham e che finì per condizionare l'operato della Real Marina del Regno delle Due Sicilie ed il ritardo con cui le navi da guerra borboniche giunsero nelle acque marsalesi, da cui conseguì un'azione difensiva tardiva e sterile.
    Inoltre, i comandanti borbonici, ignorando le segnalazioni dei servizi di informazione napoletani, appena un giorno prima dello sbarco, avevano fatto rientrare a Palermo le colonne del generale Letizia e del maggiore d'Ambrosio, per far fronte al pericolo d'insurrezione nella capitale siciliana. Questo cambiamento, però, fu fatale in quanto, al momento dello sbarco, non vi erano truppe di terra né a Marsala, né nei dintorni.

    Operazioni in Sicilia

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    Garibaldi fotografato a Palermo, nel luglio 1860


    I garibaldini lasciarono Marsala e si inoltrarono rapidamente verso l'interno. A loro si unirono, già il 12 maggio, 200 volontari siciliani comandati dai fratelli Sant'Anna. Il 14 maggio a Salemi Giuseppe Garibaldi dichiarò di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele.
    I Mille, affiancati da 500 "picciotti", ebbero un primo scontro nella battaglia di Calatafimi il 15 maggio, contro circa 4.000 soldati borbonici. Qui, con un eroico gesto, Augusto Elia salva la vita al generale Garibaldi, riportando una grave ferita al volto.
    Dopo Calatafimi Garibaldi proseguì verso Palermo, per Alcamo, Partinico e Renne, giungendo in vista della città. Dopo qualche scaramuccia e varie manovre diversive verso l'interno, i garibaldini, il 27, giunsero a Palermo e si apprestarono ad entrare in città, ma prima dovettero attraversare il Ponte dell'Ammiraglio, presidiato dai militari borbonici. Dopo un duro scontro, le truppe reali abbandonarono il campo e rientrarono a Palermo, una colonna attraverso la Porta Termini, l'altra attraverso la Porta Sant'Antonino

    Battaglia di Calatafimi

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    Garibaldi a Calatafimi

    La battaglia di Calatafimi venne combattuta il 15 maggio 1860, in località Pianto Romano, posta a circa 4 km dall'abitato di Calatafimi e a poca distanza dalle rovine di Segesta, da i Mille di Giuseppe Garibaldi, affiancati da mezzo migliaio di siciliani, contro circa 3.000 militari borbonici che formavano la brigata al comando del generale Francesco Landi.

    Antefatti

    Le truppe borboniche erano ben piazzate sulle alture del colle, in posizione favorevole, ottimamente armate e supportate da due moderni pezzi di artiglieria da campagna ed un reparto di cavalleria. All'opposto, i Garibaldini si trovavano nelle posizioni sottostanti, senza l'appoggio di cavalleria e dotati di armamenti superati e fatiscenti.
    Inizialmente le formazioni si fronteggiarono a distanza, lasciando voce ai pezzi d'artiglieria ed alle moderne carabine di precisione.
    Di tali fucili erano dotati i 400 Cacciatori Napoletani dell'8º battaglione guidato dal maggiore Sforza, corpo d'eccellenza dell'esercito delle Due Sicilie. Anche tra le file garibaldine era presente un piccolo nucleo di tiratori scelti: i 37 carabinieri genovesi, così chiamati in quanto frequentatori del regio tiro a segno di Genova, intervenuti con le proprie carabine da gara.

    Svolgimento

    Dopo un paio d'ore d'immobilismo i Cacciatori Napoletani tentarono un attacco alla prima linea garibaldina, ma vennero fermati su posizioni intermedie, dalla precisione di tiro dei carabinieri e da un disperato contrattacco alla baionetta.
    Pur non riuscendo completamente nel loro intento, i cacciatori erano ora attestati nelle vicinanze delle linee garibaldine che, avendo a malapena fermato l'attacco di un sesto delle forze nemiche schierate, difficilmente avrebbero potuto resistere ad un'azione più energica.
    Per questo motivo, il generale Nino Bixio diede ordine di prepararsi alla ritirata che, vista l'inesistenza di retrovie fortificate, si sarebbe trasformata in una fuga disastrosa. La leggenda vuole che Garibaldi abbia bloccato tale ordine, intimando il celebre «Nino, qui si fa l'Italia o si muore!». Vista la situazione e la capacità tattica del vecchio condottiero, appare inverosimile che egli abbia pronunciato una tale frase, probabilmente da attribuire alla retorica risorgimentale. In realtà, una frase simile venne pronunciata da Garibaldi poco prima del contrattacco alla baionetta che fermò l'azione dei Cacciatori Napoletani. Il generale, come suo costume, visti gli uomini in difficoltà si portò nelle prime linee, per incitare i Garibaldini a lanciarsi in uno scontro all'arma bianca, come ultimo tentativo di fermare l'attacco borbonico. Racconta il garibaldino Giuseppe Guerzoni: «Quel pugno di uomini trafelato, pesto, insanguinato, sfinito da tre ore di corsa e di lotta, trovata ancora in quelle maliarde parole la forza di risollevarsi e tenersi in piedi, riprese, come gli era stato ordinato, la sua salita micidiale; risoluto all'ecatombe…. e come l'eroe aveva previsto, la fortuna fu di loro. Incalzati nuovamente di fronte a quel branco di indemoniati che pareva uscissero da sottoterra, sgomenti dall'improvviso rombo dei cannoni che Orsini era finalmente riuscito a portare in linea, turbati dal clamore crescente delle squadre sui loro fianchi, i borbonici disperano di vincere, e voltate per la settima volta, le spalle, abbandonano il monte e si precipitano a rifugiarsi dentro Calatafimi.»
    L'imprevisto spostamento venne subito seguito dal capo di stato maggiore Sirtori e dagli ultimi reparti di riserva che si lanciarono a proteggere l'incolumità del condottiero. Fu in quella occasione che Garibaldi pronunciò la frase «Italiani, qui bisogna morire!» sottolineando la necessità di quell'azione pericolosa. Lo stesso Garibaldi rischiò la vita e venne salvato con un eroico gesto da Augusto Elia, che riportò un grave ferita al volto.
    Dopo che l'attacco era stato fermato, senza compromettere la loro sostanziale superiorità, in modo del tutto inaspettato ed incomprensibile, furono i soldati borbonici ad indietreggiare, sotto gli sguardi increduli dei Garibaldini.
    L'ordine di ritirata del generale Landi gli appariva così illogico che, per una buona ora, Garibaldi non seppe decidersi a ordinare il contrattacco. Temendo una trappola, si limitò ad osservare le precipitose manovre di ripiego dei reparti nemici, ordinatamente coperte dai Cacciatori Napoletani. Quando i Garibaldi ordinò l'attacco della 6ª Compagnia, guidata dal Capitano Giacinto Carini, il grosso della brigata borbonica era ormai sulla strada per Alcamo.
    I timori di Landi erano basati sui segnali d'inquietudine mostrati dalla popolazione sicula, storicamente ostile alla dominazione borbonica, le cui speranze erano state riaccese dalla missione informativa operata da Rose Montmasson e ingigantite dal riuscito sbarco di Marsala. Landi aveva truppe ben equipaggiate, ma a corto di viveri e temeva di essere tagliato fuori dalla sicura Palermo a causa della rivolta popolare. Poche ore dopo, a Partinico, le paure di Landi si rivelarono tutt'altro che infondate.
    L'altra causa che fece decidere i borbonici per la ritirata fu la sorpresa nel veder sconfessate le informative diramate dalle autorità nei giorni precedenti che descrivevano i Mille come una banda male armata di malviventi e straccioni, in cerca di bottino. La previsione trovava conferma visiva nelle molte camice rosse garibaldine, simili alle casacche indossate dai galeotti nelle carceri napoletane. Pur male armati e composti per una buona metà da studenti universitari senza istruzione militare, l'altra metà era formata da veterani della prima e seconda guerra d'indipendenza, esperti nella tattica di combattimento, che sapevano sfruttare i momenti propizi, senza farsi prendere dall'entusiasmo o dal panico. Grande fu lo sgomento dei Cacciatori Napoletani nel veder stroncato il loro attacco da un fuoco di fucileria non affrettato, seguito da una coraggioso e imprevedibile contrattacco alla baionetta. Un comportamento certo non assimilabile a quello delle bande di briganti con le quali erano soliti scontrarsi. Il coraggio e la disciplina dei Garibaldini destò ammirazione in molti militari borbonici e, insieme all'inettitudine dei loro comandanti, fu la principale causa delle numerose defezioni che decimarono l'Esercito delle due Sicilie e ingrossarono le file garibaldine di validi combattenti.

    Epilogo e conseguenze

    Il combattimento, durato poco più di 4 ore, terminò con un bilancio provvisorio 32 morti, per entrambi gli schieramenti, tra cui 19 Garibaldini. Delle 13 perdite borboniche, due furono causate dal franare di un cannone da campagna durante le operazioni di ritirata. Il pezzo venne recuperato dai vincitori, aumentando così del 50% l'artiglieria a disposizione dei Mille.
    I feriti garibaldini vennero trasportati nella Chiesa e nelle case del piccolo paese di Vita che, in quel frangente, fungeva da base logistica. Tra questi lo scrittore Giuseppe Bandi e i capitani Simone Schiaffino e Francesco Montanari, entrambi amici personali di Garibaldi, che morirono qualche ora più tardi.
    I feriti borbonici più gravi furono abbandonati dai commilitoni nella chiesa di Calatafimi e presi in cura dai medici garibaldini. Garibaldi stesso, dopo averli visitati ed essersi congratulato per il valore dimostrato, si fece garante della loro incolumità, oltre alla libertà, un tempo guariti, di poter tornare alle loro case o combattere per l'uno o l'altro schieramento.
    Nonostante la sovrabbondanza di medici tra i Mille, il computo delle perdite era tragicamente destinato ad aumentare nelle ore successive, per la scarsa efficacia delle cure mediche del tempo. Il bilancio definitivo fu di 33 morti e 174 feriti tra i garibaldini e 35 morti e 118 feriti tra i borbonici.
    Nella storia militare la battaglia di Calatafimi rappresenta un combattimento d'incontro, poco più di una scaramuccia. Purtuttavia lo scontro ebbe enormi conseguenze sul piano strategico. Il disordinato arrivo della colonna di Landi, con militi stremati dalla fatica e dalla fame, fece una grande impressione sulla cittadinanza palermitana. Garibaldi assurse immediatamente, nella fantasia popolare, al ruolo di condottiero invincibile, al cui comando unirsi per combattere gli occupanti napoletani.
    Nel 1892, in memoria di quello scontro, venne inaugurato il Sacrario di Pianto Romano, progettato da Ernesto Basile, ove sono custodite le spoglie dei caduti ed altri cimeli.
    La battaglia di Calatafimi, è ricordata nella toponomastica di molte città italiane.

    Il presunto tradimento di Landi

    Landi, al ritorno a Napoli, fu sottoposto, insieme ad altri ufficiali, al giudizio di una commissione che prosciolse tutti gli accusati. Nonostante ciò, subito dopo essere stato giudicato innocente, egli si congedò dall'esercito. Nel 1861, si diffuse la notizia secondo la quale l'ex generale si sarebbe recato presso la filiale partenopea del Banco di Napoli, per incassare una polizza di credito dell'ammontare di 14.000 ducati d'oro, quale ricompensa ricevuta da Garibaldi per aver sposato la causa unitaria. La polizza sarebbe risultata falsificata, poiché, in realtà, aveva un valore di soli 14 ducati. La faccenda finì sui giornali suscitando un enorme scandalo che, si disse essere stato la principale causa dell'ictus che provocò la morte del Landi. Sull'avvenimento uno dei figli del generale, a salvaguardia dell'onore paterno, riuscì ad ottenere una lettera di smentita dallo stesso Garibaldi. Nel frattempo quattro dei cinque figli di Landi, tutti ex militari dell'esercito borbonico, erano già in servizio quali ufficiali dell'esercito sabaudo; il quinto figlio, Francesco Saverio, appartenente alle guardie del corpo a cavallo mori giovanissimo sul Volturno.

    Insurrezione di Palermo

    Con insurrezione di Palermo si indica la serie di avvenimenti che dal 27 al 30 maggio 1860 portarono alla conquista della città di Palermo da parte dei garibaldini della spedizione dei Mille.

    Assalto su Palermo

    La spedizione, partita verso le undici di mattina da Misilmeri, giunse verso mezzogiorno a Gibilrossa. Qui si trovavano circa quaranta squadre siciliane, con effettivi che variavano da duecento a venti-trenta uomini, che furono passate in rassegna da Garibaldi. In seguito fu prescelta l'avanguardia e bandito un premio di 8.000 onze da dare a chi per primo avesse piantato il tricolore sul Palazzo municipale di Palermo. All'imbrunire iniziò la discesa su Palermo con la consegna del silenzio più assoluto e l'ordine di non sparare fino al sorgere del sole. A Gibilrossa giunsero inoltre tre ufficiali inglesi e due americani con notizie e il corrispondente del The Times, l'ungherese Eber, con informazioni da parte del comitato rivoluzionario di Palermo e la richiesta, accolta, di venir arruolato fra i Mille. Da queste informazioni Garibaldi riuscì a conoscere qual era la zona peggio difesa, il lato sud-orientale che era rivolto verso il mare.
    Superati i dirupi della montagna gli attaccanti seguirono la strada che portava alla città ed alle due di notte giunsero a Acqua dei Corsari, qui fecero sosta e si disposero, per ordine del Generale, in due file al lato della strada. In avanguardia vi erano trenta Cacciatori delle Alpi del maggiore Tüköry fiancheggiati e seguiti dai guerriglieri delle squadre del La Masa. Poco prima dell'alba raggiunsero Settecannoli, dove i siciliani, trasgredendo gli ordini iniziarono a sparare e fecero così perdere agli attaccanti il vantaggio della sorpresa tattica. Questo permise ai circa 200 soldati borbonici appostati presso il Ponte dell'Ammiraglio di iniziare un fuoco di fila che causò lo scompiglio nelle squadre siciliane che si dispersero parzialmente nei campi. Comunque i Cacciatori delle Alpi, e parte dei siciliani, risposero al fuoco e il loro successivo assalto causò la fuga dei soldati napoletani, permettendo così al resto dei volontari di attraversare il ponte; continuavano però a venire bersagliati da altre truppe presenti sul Ponte della Guadagna. Molti furono feriti nel piano antistante la Porta Termini (Lajos Tüköry vi ricevette il colpo che doveva portarlo poi alla morte), perciò il Generale inviò una compagnia per prendere alla spalle i borbonici della Guadagna e farne cessare il fuoco, come in effetti avvenne. Intanto molti dei garibaldini erano riusciti ad entrare in città, questo anche grazie al fatto che i 59 soldati borbonici del 9º di linea i quali, appostati dietro un terrapieno, avevano sostenuto inizialmente l'urto dell'attacco successivamente, non vedendo giungere rinforzi, si erano ritirati verso il corpo di guardia delle Regie Poste, che si trovava vicino alla chiesa di San Cataldo.

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    Garibaldi entra a Palermo da Porta Termini


    Entrati in città le squadre si diressero subito alla piazza Fieravecchia (luogo simbolo in quanto vi aveva avuto inizio la rivoluzione siciliana del 1848). A questo punto gli abitanti si convinsero che i garibaldini erano entrati in Palermo e la popolazione insorse; le campane iniziarono a suonare a stormo. Nello stesso tempo una nave da guerra posta davanti alla via S. Antonino (odierna via Lincoln) cominciò a tirare per impedire l'accesso alla Porta Termini. Lo stesso punto era preso d'infilata dal tiro dei soldati presenti presso la Porta Sant'Antonino e dalla caserma posta nelle vicinanze; gli attaccanti aspettavano quindi l'intervallo tra un tiro e l'altro della nave per attraversare il quadrivio posto dinnanzi alla porta. Per far passare il Generale si costruì una barricata di vari oggetti permettendo quindi l'ingresso di Garibaldi in città verso le quattro di mattina.
    In un'ora le squadre avevano occupato all'incirca metà della città ma a mezzogiorno dal Castello a Mare iniziò il bombardamento sull'abitato, azione che era già stata minacciata dal Lanza in caso di insurrezione, ed anche i cannoni del Palazzo reale incominciarono a far fuoco insieme a due fregate poste in rada. Intanto su tutta la linea del fronte si continuava a combattere.

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    Le truppe regie iniziano il saccheggio presso Porta di Castro, per poi dare alle fiamme l'intero quartiere a sud del Palazzo Reale


    La reazione borbonica, comunque, mostrò la totale assenza di un chiaro piano d'azione, limitandosi ad atti di ritorsione verso la cittadinanza, spesso sfociati in uccisioni, stupri, saccheggi e incendi di abitazione civili; l'ammiraglio inglese Mundy, presente nel porto, scriveva in proposito: «un intero quartiere, lungo mille e largo cento yards, è in cenere; famiglie intere sono state bruciate vive insieme colle loro case, mentre le atrocità delle truppe regie sono indescrivibili»; a ciò si aggiunse anche la profanazione e la rapina di chiese e conventi.
    La popolazione, armata alla meglio, era scesa anch'essa sul campo e si costruivano dappertutto delle barricate. La battaglia cessò solo al sopravvenire della notte e anche il bombardamento (che aveva causato più di trenta incendi) ebbe qualche ora di pausa.
    Nel pomeriggio si era avuto il secondo attacco, portato dalle squadre del Corrao (che aveva sostituito Rosalino Pilo), disposte sul lato nord-occidentale della città. Questo era meglio difeso del lato sud-est attaccato da Garibaldi ed era per di più presidiato dalle truppe che quest'ultimo aveva respinto. Durante il giorno gli uomini del Corrao non erano riusciti ad entrare, ma con un attacco notturno di sorpresa sulle truppe accampate in piazza Sant'Oliva riuscirono nell'impresa barricandosi poi nel Corso Olivuzza. Il Corrao stabilì il proprio quartier generale nel Palazzo Butera. Infatti poco dopo si aveva un forte contrattacco dei borbonici, interessati a ristabilire le comunicazioni interrotte tra i due punti dove erano asserragliate le truppe regie: il Palazzo reale ed il porto di Palermo; per quattro volte fu tentato l'assalto (l'ultima delle quali con l'artiglieria) ma alla fine i napoletani si ritirarono sconfitti. Il Corrao faceva il proprio ingresso in città (ferito alla fronte) da Porta Maqueda la mattina del 28 maggio.
    L'attacco delle squadre guidate dal Corrao spezzò quindi in due tronconi l'armata borbonica, e le truppe regie si ritirarono verso il palazzo Reale e verso il Castello a Mare. Contemporaneamente anche i soldati di guardia alle Grandi Prigioni (Vicaria), per non rimanere isolati, lasciarono i loro posti permettendo ai carcerati (tra i quali alcuni detenuti politici) di evadere e di andare, per la maggior parte, ad ingrossare le file degli insorti.
    Il 29 mattina i soldati presso palazzo Reale, a corto di viveri e forse anche di munizioni, che invece presenti invece presso il Castello a Mare, fecero un nuovo importante sforzo per ricongiungersi con le forze lì presenti. Si combatté su tutta la linea delle barricate ed in maniera accanita nei pressi del Duomo, del palazzo Reale e del Papireto. Le contromisure messe in atto dal Generale furono comunque efficaci ed il tentativo fallì. Le truppe di Palazzo Reale erano a questo punto quasi totalmente sprovviste di viveri e munizioni mentre a Castello a Mare iniziarono a mancare le bombe. La mattina del 30 il bombardamento borbonico era cessato ed anche i combattimenti languivano; nel mattino il generale Lanza chiese al generale Garibaldi di iniziare delle trattative, con l'intermediazione dell'ammiraglio Mundy. Fu stabilito quindi un immediato cessate il fuoco e un armistizio a partire dalle 12.
    A questo punto la vittoria che si profilava da parte garibaldina corse un grave pericolo. Infatti le ingenti forze comandate dal Von Mechel e dal Bosco (circa 3000 uomini) che ingannate dalla diversione avvenuta a Piana dei Greci avevano inseguito la colonna dell'Orsini, richiamate dal Lanza il 29 sera (un precedente messaggero inviato dal commissario era stato intercettato) tornarono rapidamente indietro, entrando in città il 30 mattina dalla Porta Termini (come già fatto dal generale Garibaldi) e, per via della tregua e del fatto che i combattimenti si erano svolti in altre parti della città, trovarono la Porta e le zone circostanti pochissimo difese. Si trattava in gran parte di mercenari bavaresi e svizzeri ben addestrati e muniti di cavalleria e artiglieria. L'attacco fu contrastato inizialmente dal capo di stato maggiore di Garibaldi Giuseppe Sirtori e poi dal colonnello Carini, entrambi rimasti feriti. Quando le forze napoletane erano ormai giunte alla Fieravecchia intervenne Garibaldi accompagnato da un capitano borbonico che impose ai comandanti borbonici di cessare immediatamente l'attacco per via della tregua già stipulata.

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    Primi di giugno: quartiere Quattro Venti, un telone e' steso attraverso la strada per impedire le comunicazioni visuali delle truppe borboniche asserragliate nel castello con le loro navi


    Alle due pomeridiane vi fu un incontro tra Garibaldi, che indossava l'uniforme di generale piemontese, ed il generale Letizia, quale rappresentante del commissario straordinario, a bordo del vascello inglese Hannibal, comandato dall'ammiraglio Mundy. Garibaldi permise che il libero passaggio a feriti e vettovaglie ma si oppose a che il Senato di Palermo (che costituiva la municipalità) sottoponesse un «umile petizione a S. M. il Re, esprimendogli i reali bisogni della città», dicendo che era finito il tempo delle umili petizioni. La tregua fu stabilita fino alle 18 del giorno dopo.
    Tornato al Palazzo delle Aquile Garibaldi vi ricevette il maggiore Bosco venuto a insistere sui punti della tregua in precedenza respinti dal Generale. Allora, alla presenza del maggiore, egli tenne un discorso alla folla che si era raccolta e che voleva conoscere qual erano le condizioni dell'armistizio:

    « Il nemico mi ha proposto un armistizio, ch' io non aveva chiesto. I pianti delle donne, i lamenti dei feriti mi vi hanno indotto. Su un punto non ho voluto cedere perché umiliante per la generosa popolazione di Palermo, che si faccia una supplica e si chieda scusa al Borbone. Il nemico promette la costituzione del 12. Questo punto riguarda il popolo e io me ne rimetto al popolo. Ben inteso però, che se vuole accettarlo, a me non resta che riprendere i miei ed andarmene. Al popolo dunque di scegliere se accetta le proposte o vuole continuare la guerra »
    (Paolucci, op. cit., p. 185)


    A queste parole la folla rispose in modo unanime con il grido «guerra, guerra». il Generale allora rispose di prepararsi in ogni maniera e con qualsiasi arma alla ripresa dei combattimenti e congedò il maggiore Bosco. S'inizio subito a preparare barricate e munizioni per contrastare l'attacco dei regi che si giudicava imminente. Nel frattempo i borbonici si preparavano ad effettuare una manovra a tenaglia coordinando le forze di Palazzo Reale con quelle presenti alla Fieravecchia, ma visto l'ardore del popolo palermitano per la lotta il Lanza alla fine richiese che la tregua venisse prolungata di altri tre giorni e concesse a Garibaldi il possesso del Palazzo della Zecca, situato presso il porto, che conteneva molto denaro. Infine l'armistizio divenne a tempo indeterminato.

    Conseguenze

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    Arrivo della colonna Medici a Palermo


    Il 6 giugno venne firmata la convenzione che stabiliva che le truppe borboniche abbandonavano la città di Palermo ottenendo gli onori militari.
    Stabilita la tregua Garibaldi inviò il Corrao incontrò alla colonna di artiglieria dell'Orsini che egli, quale manovra diversiva, aveva inviato verso il centro dell'isola. La colonna, partita da Piana il 24 giunse alle 10 di mattina del giorno successivo a Corleone. Il 27 impegnò in combattimento la colonna di Von Mechel e Bosco, che l'inseguiva credendola il grosso delle forze garibaldine, perdendo due dei cinque cannoni in suo possesso, mentre i tre rimanenti vennero nascosti il 29. Nel frattempo Orsini da Corleone si era mosso verso Bisacquino e Chiusa Sclafani, ripiegando poi verso Giuliana, con l'intenzione di raggiungere Sciacca, da dove i componenti della colonna speravano di imbarcarsi verso Malta. Il 29 sera però giungeva la notizia dell'entrata in Palermo dei Mille e perciò Orsini decise di tornare indietro, recuperando nel frattempo i cannoni nascosti dopodiché, con l'aiuto di Achille Campo macchinista del Piemonte, i pezzi di artiglieria vennero riparati presso un'officina impiantata a Sambuca. Giunto a Misilmeri la sera del 5 giugno Orsini vi incontrò il Corrao, con cui aveva combattuto insieme nel 1848. La mattina successiva le forze riunite dei due comandanti garibaldini raggiunsero Villabate e da qui venne seguirono un percorso tortuoso per evitare i le forze militari borboniche presenti nella capitale dell'isola.
    Il 7 giugno le truppe regie iniziavano ad imbarcarsi e le ultime abbandonavano la città il 19 giugno. A questo punto buona parte dei combattenti siciliani erano rientrati alle loro case mentre dei Mille rimanevano poche centinaia di uomini abili, ma il 18 giugno era sbarcata nel golfo di Castellammare la colonna comandata dal generale Giacomo Medici forte di 2500 uomini. Grazie alla vittoria di Palermo la Sicilia occidentale era libera dal dominio borbonico, ma l'esercito borbonico si stava rinforzando nella parte orientale dell'isola in cui le forze dislocate passarono da 5000 a 22.000 uomini, per la gran parte, 18.000, presenti presso Messina. Da Palermo Garibaldi intanto inviò il 20 giugno una divisione (la 15ª del nuovo esercito meridionale da lui costituito) al comando di Türr (poi sostituito da Eber) verso Enna, da dove si diresse a Catania senza incontrare resistenza; un'altra colonna, forte di 1200 uomini e al comando di Bixio, partiva il 25 seguendo il percorso Girgenti-Licata da dove s'imbarcava verso Terranova di Sicilia e da qui tagliava per Catania ricongiungendosi infine con quella dell'Eber. Infine la colonna più importante mosse al comando del Medici direttamente sulla direttrice Palermo-Messina.

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    Francesco Crispi, riconosciuto come l'ideatore della Spedizione dei Mille


    Nei successivi scontri tra Porta Sant'Antonino e Porta Termini cadeva l'ungherese Luigi Tüköry, mentre furono feriti, fra gli altri, Benedetto Cairoli, Stefano Canzio e Nino Bixio.

    Operazioni sul continente

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    L'ingresso di Garibaldi a Napoli, il 7 settembre 1860, nell'attuale Piazza 7 settembre


    Con la neutralizzazione di Messina, Garibaldi iniziò i preparativi per il passaggio sul continente, nominando Agostino Depretis prodittatore, per governare la Sicilia. Cavour esercitava fortissime pressioni per procedere subito ai plebisciti in Sicilia, preoccupato che la benevola neutralità di Francia ed Inghilterra potesse rovesciarsi, inficiando le conquiste compiute. Più aggressivo si dimostrava, sicuramente, Vittorio Emanuele II, il quale incoraggiava il generale a passi decisi. Mentre le forze borboniche attendevano lo sbarco garibaldino a Reggio, il 19 agosto Garibaldi prescelse un tragitto alquanto più lungo e sbarcò sulla spiaggia ionica di Melito Porto Salvo, in Calabria. Garibaldi disponeva ormai di circa ventimila volontari. In Calabria i borbonici non seppero offrire una dignitosa resistenza: interi reparti dell'esercito borbonico si disperdevano o passavano al nemico; il 30 agosto, a Soveria Mannelli, un intero corpo di oltre diecimila uomini, comandato dal generale Giuseppe Ghio, si arrese senza combattere ad una colonna di garibaldini guidata da Francesco Stocco.
    Il 2 settembre Garibaldi e i suoi uomini entrarono in Basilicata (la prima regione della parte continentale del regno ad insorgere contro i Borboni), precisamente a Rotonda. Il suo passaggio in terra lucana si concluse senza particolari problemi, grazie anche all'appoggio di Giacinto Albini e Pietro Lacava, autori dell'insurrezione lucana in favore dell'unità nazionale. Il giorno seguente, Garibaldi attraversò in barca la costa di Maratea e presso Lagonegro raccolse gli uomini lucani che lo seguirono fino alla Battaglia del Volturno (tra questi vi fu Carmine Crocco, in seguito famoso brigante post-unitario). Il 6 settembre Garibaldi incontrò Albini ad Auletta e nominò il patriota Governatore della Basilicata.
    Intanto, il re Francesco II abbandonava Napoli per portare l'esercito fra la fortezza di Gaeta e quella di Capua, con al centro il fiume Volturno. Così, il 7 settembre, Garibaldi, praticamente senza scorta, poté entrare in città accolto da liberatore. Le truppe borboniche, ancora presenti in abbondanza ed acquartierate nei castelli, non offrirono alcuna resistenza e si arresero poco dopo. In seguito avvenne la decisiva battaglia del Volturno, dove circa 50.000 soldati borbonici persero lo scontro con gli uomini di Garibaldi, i quali erano approssimativamente la metà. La battaglia terminò il 1º ottobre (altri dicono il 2 ottobre).

    Battaglia di Piazza Duomo

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    Assalto alla Cattedrale di Reggio

    La battaglia di Piazza Duomo fu combattuta nell'omonima piazza di Reggio Calabria il 21 agosto 1860. L'episodio vide contrapposti i garibaldini della spedizione dei Mille all'Esercito delle Due Sicilie e si concluse con la sconfitta delle forze borboniche.

    Antefatto

    Nei giorni precedenti la battaglia, vi erano stati vari sbarchi di forze garibaldine sulle coste calabre, l'ultimo (e più importante) fu lo sbarco a Melito, avvenuto il 19 agosto, con cui Giuseppe Garibaldi (accompagnato da un cospicuo contingente dell'Esercito meridionale) passò dalla Sicilia alla Calabria e si riunì alle forze precedentemente sbarcate. Nel frattempo, a Reggio, il generale Gallotti spedì dei messaggi al generale Briganti informandolo dell'avvenuto sbarco; la risposta fu di inviare tutte le forze disponibili contro Garibaldi. Contemporaneamente il maresciallo Vial, comandante in capo delle truppe in Calabria, ordinava al Briganti di muoversi verso Reggio e al Melendez di sostenerlo; mentre in città era di presidio il 14º reggimento, con al comando il colonnello Antonio Dusmet e si poteva inoltre contare sulla favorevole posizione del Castello, ben fortificato ed armato. Il 20 mattina, il Gallotti ordinò, quindi, al Dusmet di muovere verso il torrente Sant'Agata per attendervi l'arrivo di Garibaldi, ma, dopo alcune ore, le forze del Dusmet furono spostate al Calopinace; questo in quanto si era saputo che le colonne garibaldine avevano preso la via dei monti; successivamente gli uomini del Dusmet venivano nuovamente spostati in piazza Duomo, lasciando una sola compagnia di presidio presso il Sant'Agata e il Gallotti chiedeva intanto al generale Fergola di inviare dalla fortezza di Messina, ancora in mano ai napoletani, quanti più rinforzi fosse possibile. Anche se il parere dei militari di stanza a Messina fu positivo, questi non poterono intervenire in quanto sprovvisti di imbarcazioni. Il Dusmet, che aveva ricevuto dal Gallotti il divieto di attestarsi nel Castello (posizione preferibile rispetto alla piazza del Duomo, poco difendibile militarmente per i numerosi accessi che presentava), disponeva, quindi, le proprie forze nel miglior modo possibile e andava a dormire nel portone di palazzo Ramirez, sito nei pressi del Duomo ed in seguito (non vedendo giungere alcun rinforzo) si recò di persona presso il telegrafo elettrico per segnalare al Re Francesco II la situazione in cui si trovava. Nel frattempo, Garibaldi, dopo aver sostato a Pellaro, si muoveva, al far della notte, verso Reggio. Dal torrente Marroco, posto prima del Sant'Agata, si spostò verso la strada di Ravagnese, e presso Ravagnese sostò. Due ore prima del sorgere del sole, mosse, quindi, verso la città.

    La battaglia

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    Battaglia in piazza Duomo


    Entrate in città, le forze garibaldine furono divise in due colonne, una diretta verso il carcere centrale di San Francesco e l'altra diretta verso la contrada del Crocefisso. Il gruppo inviato al penitenziario fu il primo a giungere a destinazione. Dopo essersi consultati con i liberali locali, i garibaldini riuscirono a chiudere i soldati borbonici che si trovavano nella struttura all'interno della stessa e poi si mossero lungo la via dell'Orto Agrario. Quasi nello stesso momento, i garibaldini che avevano preso la strada del Crocefisso arrivarono in piazza San Filippo; notati dalle guardie borboniche si ebbe uno scambio di colpi d'arma da fuoco e i borbonici ripiegarono verso piazza del Duomo avvertendo dell'attacco in corso le truppe lì disposte. I garibaldini delle due colonne giunsero anch'essi, da tutti i lati, in piazza Duomo e iniziarono a fare fuoco sulle truppe regie disposte davanti palazzo Tommasini, che rispondevano al fuoco aiutate dall'artiglieria, che fece numerose vittime tra i garibaldini; in questi frangenti Nino Bixio fu ferito due volte al braccio e la sua cavalcatura venne uccisa a baionettate. Il Dusmet, alzatosi alle prima grida e slanciatosi in avanti dal portone di palazzo Ramirez, veniva colpito al ventre; altro colpo fu inferto al di lui figlio, sottufficiale nello stesso reggimento. I due, trasportati insieme presso la casa di un parente, si spensero qualche giorno più tardi. Intanto, per i borbonici, circondati da tutti i lati (grazie anche alle indicazioni che i garibaldini ricevono dalle guide locali), la situazione si faceva insostenibile e furono, quindi, costretti a ritirarsi nel Castello. Alle prime luci dell'alba, i reggini aprirono i loro usci e fornirono assistenza ai feriti, mentre i garibaldini si spargevano per la città e Garibaldi iniziava a dare disposizioni. Mentre il generale nizzardo stava sorbendo una tazza di caffè nella piazza, fu sfiorato da un colpo di fucile sparato da una delle case vicine: il proiettile causò il ferimento di uno dei suoi ufficiali, mentre non si riuscì ad individuare il cecchino. Il Briganti, a cui il Vial aveva ordinato di dare supporto al generale Gallotti, il 21 mattina, continuò la marcia verso Reggio, dopo aver rifiutato il supporto della mezza batteria di artiglieria del capitano Vincenzo Reggio. Giunto alle sei di mattina al ponte dell'Annunziata, si fermò e distaccò due compagnie per attaccare dalla parte del mare e altre quattro le inviò all'interno del rione Santa Lucia; i garibaldini, che si erano già attestati su entrambe le direttrici, accolsero con un nutrito fuoco le truppe regie.

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    La guarnigione borbonica di Reggio in attesa di essere imbarcata


    Le truppe inviate dal lato della costa si ritirarono, mentre le forze stanziate a Santa Lucia, dopo un combattimento di due ore, che causò anche il ferimento del comandante borbonico, furono sconfitte. Durante questi avvenimenti, il Briganti decise di ritirarsi verso Villa San Giovanni.
    Da segnalare anche il comportamento della Marina napoletana, le cui navi presenti a Reggio e incaricate della sorveglianza dello stretto invece di supportare nella difesa della città le forze di terra ricevettero l'ordine, dal comandante della squadra Vincenzo Salazar, di uscire al largo per «ragioni umanitarie», senza perciò intervenire in alcun modo nella battaglia.
    Alle ore 16, il generale Gallotti, vista la ritirata del Briganti e l'allontanamento dalla rada delle navi borboniche, firmò la resa del Castello, con l'onore delle armi, che comportò la consegna dello stesso con le sue artiglierie, gli animali da tiro e i materiali e le munizioni ivi presenti ai garibaldini, mentre i soldati borbonici, i loro famigliari e gli impiegati che desiderarono seguirli, furono liberi di andarsene e attendere l'imbarco per Napoli presso l'ospedale militare; parimenti i prigionieri presenti furono liberati.
    Dopo la vittoria, Antonino Plutino fu nominato governatore della provincia con «poteri illimitati» e Garibaldi scrisse a Sirtori il seguente messaggio: «Caro Sirtori, fate passare subito coi vapori quanta gente potete, imbarcateli ove volete, e sbarchino al sud di Villa S. Giovanni».
    Nella stessa notte della battaglia il Cosenz riusciva a sbarcare insieme a 1268 uomini a Favazzina, dopo essere riuscito a superare indenne il tiro del forte di Scilla, grazie alla flottiglia di barche, circa un centinaio, messa insieme da Castiglia che doveva parzialmente venir catturata dai legni borbonici accorsi. Superata la resistenza di circa 200 soldati regi che erano accorsi i garibaldini si spostarono verso Solano dove si batterono contro un distaccamento della colonna Ruiz e dove cadde il De Flotte. Le truppe del Cosenz, seguendo gli ordini di Garibaldi, riuscirono a porsi alle spalle delle forze del Melendez e del Briganti (mentre quelle del Ruiz riuscirono a mettersi in salvo) costringendole ad arrendersi a discrezione il 23 agosto. Il giorno seguente si arresero i forti di Altafiumara e di Torre Cavallo, portando alla perdita di controllo da parte dei borbonici dello stretto di Messina.

    Battaglia del Volturno

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    Battaglia del Volturno - combattimento di Porta Romana, verso Santa Maria Maggiore


    Battaglia del Volturno è il nome sotto cui si raccolgono alcuni fatti d'armi tra i volontari garibaldini e le truppe borboniche, avvenuti tra il settembre e l'ottobre 1860 nei pressi del fiume Volturno, corso d'acqua dell'Italia meridionale che bagna Capua e sbocca in mare tra Napoli e Gaeta.
    La battaglia principale si svolse il 1º ottobre 1860 a sud del fiume. Furono impegnati circa 24.000 garibaldini, costituenti l'esercito meridionale, contro circa 50.000 borbonici. Al conflitto partecipò anche Carmine Crocco, allora sconosciuto disertore alleato di Giuseppe Garibaldi e divenuto poi noto insurrezionalista del brigantaggio postunitario.
    È una delle più importanti battaglie del Risorgimento, tanto per il numero dei combattenti coinvolti che per i risultati ottenuti da Garibaldi, che arrestò la ripresa offensiva dell'esercito borbonico dopo la sua ricostruzione tra le mura di Capua. Ragioni politiche e incomprensioni non diedero per lungo tempo la dovuta importanza a questa battaglia, di carattere offensivo per le truppe borboniche.
    Ai borbonici, bene armati ed equipaggiati, con buoni ufficiali e soldati, venne meno l'abilità dei capi, a differenza dei garibaldini, mal preparati, ma comandati da militari capaci e di grande ascendente, a cominciare da Garibaldi, che mostrò un notevole intuito tattico. I borbonici persero giorni preziosi prima di attaccare, a tutto vantaggio dei volontari che ebbero tempo di rafforzarsi sul terreno.
    Dopo le scaramucce del 26 e 29 settembre, il 30 i borbonici tentarono una dimostrazione con il passaggio del fiume a Triflisco, per puntare su Santa Maria a Valogno, ma furono arrestati dal fuoco di due compagnie della Brigata Spangaro, attestate a San Iorio. Finalmente il primo ottobre il maresciallo generale Giosuè Ritucci, che comandava i borbonici riuniti a Capua e in parte sulla destra del Volturno sino Caiazzo, si decise ad attaccare con l'intento di muovere frontalmente con due divisioni, la Afan de Rivera e la Tabacchi, sul centro garibaldino a Sant'Angelo in Formis e a Santa Maria Capua Vetere, raggiungere Caserta e di qui dirigersi su Napoli: due colonne laterali dovevano cooperare all'azione.
    Le truppe di Garibaldi occupavano un fronte assai esteso, di ben venti chilometri, allo scopo di proteggere le numerose comunicazioni per Napoli e Caserta: avevano la destra a Sant'Angelo con i soldati comandati da Giacomo Medici e a Santa Maria Capua Vetere con gli uomini di Milbitz, il centro a nord di Caserta con i volontari comandati da Gaetano Sacchi per la riserva e il quartier generale di Garibaldi con i volontari comandati da Stefano Türr. L'azione iniziò a ovest da parte dei borbonici che, incoraggiati dalla presenza del re Francesco II e dei conti di Trapani e Caserta, fecero ripiegare gli avamposti garibaldini ottenendo qualche buon successo. Garibaldi messosi alla testa di una compagnia e con i volontari di Medici, riuscì a ristabilire la situazione.
    Intanto si continuava a combattere con accanimento a Santa Maria Capua Vetere, dov'era ferito lo stesso generale Milbitz e si segnalava la presenza della cavalleria ungherese del maggiore Scheiter accorsa da Caserta insieme alla brigata Eber della riserva comandata da Stefano Türr.
    Alle ore 18 i borbonici erano costretti a ripiegare facendo ripristinare la linea garibaldina, Santa Maria-Sant'Angelo. Nel frattempo si combatteva aspramente pure sulle colline a est da Monte Tifata dove un piccolo gruppo di contadini diretti da nobili rimasti fedeli ai borboni resistettero un'intera giornata a un possente esercito garibaldino[senza fonte] lo scontro iniziato la mattina si concluse quando i garibaldini diedero fuoco al palazzo dei Cocozza all'interno del quale c'èrano le provviste e le munizioni dei volontari borbonici a Monte Viro e a Castel Morrone, dove cadeva eroicamente Pilade Bronzetti alla testa del 1º Battaglione Bersaglieri, che andò distrutto.
    Un altro combattimento assai importante e di maggiori proporzioni si svolgeva frattanto a est, ai Ponti della Valle, sulla via per Maddaloni. Il settore era affidato a Nino Bixio, il quale si dichiarò deciso a morirvi prima di lasciarlo.
    Le truppe garibaldine il primo di ottobre vennero attaccate dalla brigata estera del generale von Mechel, nel primo scontro quest'ultimo perdeva il proprio figlio che ricopriva il grado di tenente.
    Di fronte all'impeto delle truppe borboniche, bavaresi e svizzere, Bixio dovette retrocedere con gravi perdite oltre il Monte Caro. Successivamente, nel corso della serata venne ripreso dal colonnello Dezza con i battaglioni Bersaglieri Menotti e col battaglione Bersaglieri Taddei, facendo ripiegare von Mechel a nord oltre Dugenta.
    Dopo il ripiegamento del von Mechel, rimaneva la colonna borbonica del colonnello Perrone, in posizione isolata presso Caserta con circa tremila uomini. Venne attaccata il 2 ottobre mattina, di fronte e alle spalle, dalle truppe garibaldine con il concorso del 1º Battaglione Bersaglieri regolari piemontesi, del maggiore Soldo. Questa unità, che pure si disimpegnò dall'attacco ritirandosi a nord, fu concessa dall'ambasciatore piemontese a Napoli Villamarina che contravvenne agli ordini di Cavour di rimanere neutrale nel conflitto.

    Nei giorni immediatamente successivi alla battaglia giunse il corpo di spedizione sardo, sceso attraverso le Marche e l'Umbria papalini (dove aveva sconfitto l'esercito pontificio alla battaglia di Castelfidardo), l'Abruzzo ed il Molise borbonici.
    Poco dopo (13 ottobre) si svolse un plebiscito per l'annessione del Regno delle due Sicilie al Regno di Sardegna, in cui le votazioni furono a favore dell'annessione.
    L'impresa dei Mille si può considerare terminata con lo storico incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II del 26 ottobre 1860 a Teano. Il 6 novembre Garibaldi schierò in riga, davanti alla Reggia di Caserta, 14 000 uomini, 39 artiglierie e 300 cavalli. Essi attesero molte ore che il Re li passasse in rassegna, ma invano. Il giorno successivo, 7 novembre, il Re faceva il suo ingresso a Napoli. Garibaldi, invece, si ritirò nell'isola di Caprera.
    Nel frattempo, il 4 e il 5 novembre, si erano tenuti, con esito favorevole, i plebisciti per l'annessione di Marche ed Umbria.
    La battaglia si poteva dire conclusa, con una sostanziale vittoria, seppur sofferta e con gravi perdite, dai soldati garibaldini e sabaudi. Si chiudeva così, con l'arrivo delle truppe regolari piemontesi, la battaglia garibaldina più grande e decisiva.

    La proclamazione del Regno d'Italia

    Dopo la sconfitta sul Volturno, il re, la regina e i resti dell'esercito borbonico si erano asserragliati a Gaeta, ultimo baluardo, assieme alla cittadella di Messina e Civitella del Tronto, a difesa del Regno delle Due Sicilie. L'assedio di Gaeta, iniziato dai garibaldini il 13 novembre 1860, fu concluso dall'esercito sardo il 13 febbraio 1861. Gli ultimi Borbone di Napoli andarono in esilio.
    Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II fu proclamato Re d'Italia, mantenendo, però, il numerale "II". Ciò sta ad indicare la continuità tra il vecchio stato piemontese ed il nuovo stato unitario: il Regno di Sardegna cambiava nome in Regno d'Italia conservando la propria identità statuale (ma moltiplicando il territorio in seguito all'annessione delle Due Sicilie e degli altri Stati della penisola).
    "Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani": a questo motto - attribuito dai più a Massimo D'Azeglio, ma da alcuni anche a Ferdinando Martini - fu ispirata tutta la politica successiva alla spedizione dei Mille.

    La mancata liberazione di Roma

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    Garibaldi a Roma. Schizzo realizzato da George Housman Thomas durante l'assedio di Roma


    Per l'intera esistenza Garibaldi colse ogni occasione per liberare Roma dal potere temporale, grazie al successo passato, nel 1862, organizzò una nuova spedizione, senza pensare che Napoleone III, l'unico alleato del neonato Regno d'Italia, proteggeva Roma stessa. Il 27 giugno 1862 Garibaldi si era imbarcato sul Tortoli a Caprera per la Sicilia. Durante un incontro commemorativo della spedizione dei mille si convinse a marciare verso Roma, trovò 3.000 uomini nei pressi di Palermo pronti a seguirlo. Il 19 agosto incontrò la popolazione di Catania a Misterbianco.
    Prese due navi, il Dispaccio e Generale Abbatucci, partendo di sera costeggiando gli scogli eluse le navi di Giovanni Battista Albini. Il 25 agosto 1862, alle 4 del mattino sbarcava in Calabria, fra Melito e capo dell'Armi con duemila uomini continuò la marcia, non seguendo la costa per via del fuoco di una nave, si inoltrarono quindi per il massiccio dell'Aspromonte. La sera del 28 agosto si contarono 1.500 uomini, il 29 incontrarono le truppe di Emilio Pallavicino a cui il governo di Torino affidò circa 3.500 uomini.
    I bersaglieri aprirono il fuoco, Garibaldi ordinò di non rispondere ma alcuni dei suoi uomini gli disubbidirono, il nizzardo per far cessare il fuoco si alzò e venne ferito due volte: nella coscia sinistra e al collo del piede destro, nel malleolo. L'episodio della sua ferita sarà ricordato in una celebre ballata popolare su un ritmo di una marcia dei bersaglieri.
    Dopo circa quindici minuti, quando Garibaldi cadde, il combattimento cessò: si contarono 7 morti e 14-24 feriti nell’esercito regio e 5 morti e 20 feriti fra i seguaci di Garibaldi.
    La cosiddetta giornata dell'Aspromonte fruttò al generale l'arresto. Venne imbarcato sulla pirofregata Duca di Genova, raggiungendo prima Scilla e poi Il 2 settembre giunse a La Spezia venendo rinchiuso nel carcere del Varignano.
    Vittorio Emanuele concesse un'amnistia contro i rivoltosi il 5 ottobre, il 22 venne trasportato all’hotel Milan e venne visitato da Auguste Nélaton, il 23 novembre il chirurgo fiorentino Ferdinando Zanetti lo operò per estrarre la palla di fucile. Venne trasportato sulla nave Sardegna per Caprera. In seguito partì per l'Inghilterra
    Che il tentativo del 1862 fosse velleitario, lo provarono i successivi eventi del 1867. Garibaldi promuove una raccolta che chiama «Obolo della Libertà» contrapponendolo all'«Obolo di San Pietro» si interessa al centro insurrezionale romano, formando un Centro dell'emigrazione con sede a Firenze. Partecipò al Congresso internazionale della pace, il 9 settembre 1867 a Ginevra, dove venne eletto presidente onorario.
    Preparò un attacco contando sulla rivolta interna della città, dopo una serie di rimandi, senza l'appoggio dello stato, il 23 settembre partì da Firenze, il giorno dopo il 24 settembre 1867 venne arrestato a Sinalunga e portato nella fortezza di Alessandria. 25 deputati protestarono per l'accaduto essendo il nizzardo stato eletto nel mezzogiorno veniva ad infrangersi l’immunità parlamentare e i soldati che dovevano sorvegliarlo ascoltavano i suoi proclami dalla finestra della prigione. Venne poi portato il 27 settembre prima a Genova e poi a Caprera, isola in quarantena per colera, dove era prigioniero, sorvegliato a vista.
    Organizzò una fuga utilizzando Luigi Gusmaroli come suo sosia. Mentre l'uomo sostituì Garibaldi, il nizzardo lasciò l’isola il 14 ottobre stendendosi su un vecchio beccaccino comprato anni prima e nascosto. Giunse all’isolotto di Giardinelli, dopo aver guadato arrivò a La Maddalena alloggiando dalla signora Collins. Con Pietro Susini e Giuseppe Cuneo giunsero in Sardegna, dopo essersi riposati ripartirono il 16 ottobre e dopo aver viaggiato a cavallo per 15 ore, il 17 si imbarca raggiungendo in seguito Firenze il 20. Partito da Terni raggiungendo Passo Corese il 23, contava fra i suoi uomini circa 8.000 volontari, in quella che venne riconosciuta come "Campagna dell'Agro Romano per la liberazione di Roma". Dopo un primo attacco a Monterotondo il 25 ottobre prese il 26 ottobre 1867 la piazzaforte pontificia bruciando la porta utilizzando un carro infuocato penetrandovi con i suoi uomini.
    Giunse il 29 a Castel Giubileo e dopo a Casal de Pazzi, il 30 sino all’alba del 31 rimase in vista di Roma ma non ci fu la rivolta che attendeva e ritirò le sue truppe. Garibaldi non sapeva del proclama del re che aveva sedato gli animi rivoltosi, malgrado il sacrificio dei fratelli Cairoli (Villa Glori) e il sacrificio a Roma della Tavani Arquati e di Monti e Tognetti decapitati nel 1868.
    Decise di recarsi a Tivoli, la partenza era prevista il 3 novembre alle 3 di notte ma venne posticipata alle 11, erano circa in 4.700 giunti a Mentana incontrano i 3.500 pontifici guidati da Hermann Kanzler,riuscirono a farli retrocedere sopraggiunsero quindi i 3.000 francesi guidati da Charles De Failly dotati del fucile Chassepot a retrocarica in quella che verrà chiamata la battaglia di Mentana. Di fronte al fuoco Garibaldi continuò l'attacco ma ad una successiva carica annunciata venne fermato da Canzio, decise quindi il ritiro delle truppe. Partì con un treno da Orte alla volta di Livorno, ma presso la stazione di Figline Valdarno venne nuovamente arrestato e rinchiuso a Varignano il 5 novembre, vi restò sino al 25 novembre, tornò a Caprera. Come deputato si dimise nell'agosto del 1868.

    Giornata dell'Aspromonte

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    Garibaldi fu ferito

    La giornata dell'Aspromonte ebbe luogo il 29 agosto 1862, quando l'esercito regio fermò il tentativo di Garibaldi e dei suoi volontari di completare una marcia dalla Sicilia verso Roma e scacciarne papa Pio IX.

    Premesse: la questione romana


    Quando Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora non controllava né Venezia, né Roma. La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e la principale priorità della sua politica estera.
    Roma, in particolare, era stata proclamata capitale del regno d'Italia nella seduta del Parlamento del 27 marzo 1861, dopo un vibrante discorso del Cavour, morto poi il 6 giugno successivo. Tale obiettivo si scontrava con lo Stato Pontificio di papa Pio IX, convinto della necessità di conservare potere temporale quale garanzia di libero esercizio dell'azione spirituale. La questione romana, in ogni caso, aveva spinto, nel 1862, alle dimissioni il successore di Cavour, il toscano Ricasoli, che aveva lasciato il posto a Rattazzi.
    Il nuovo primo ministro non aveva fama di essere particolarmente rispettoso nei confronti del Papa Re: infatti negli anni Cinquanta, da ministro degli Interni del Regno di Sardegna, era stato tra coloro che avevano portato avanti la politica di soppressione delle corporazioni religiose. Non si sa, però, se sia stata sua la decisione di temporeggiare quando giunse la notizia che Garibaldi, giunto in visita in Sicilia, aveva preso a radunare una schiera di volontari e muovere su Roma.

    L'arrivo di Garibaldi in Sicilia

    Il 27 giugno 1862 Garibaldi si era imbarcato a Caprera per la Sicilia. Non vi sono certezze circa gli scopi del viaggio. Tra le diverse ipotesi, è possibile identificare una logica interpretativa comune:
    • ipotesi politica: gli osservatori erano concordi nel riconoscere l'ascendente magnetico che esercita Garibaldi in Palermo e sulle popolazione dell'isola... il Governo del Re è sotto il veto ed il placet del Generale. Scopo della visita sarebbe stata, quindi, rilanciare l'iniziativa del cosiddetto partito 'democratico', valorizzando il ruolo del suo leader incontrastato.
    • ipotesi militare: riguardo alla forma di tale rilancio, a nessuno sfuggiva la naturale tendenza del geniale uomo d'arme di declinare la propria azione attraverso la mobilitazione militare dei moltissimi disposti ad arruolarsi al suo comando. Restava da saggiare la praticabilità di tale iniziativa e l'atteggiamento del governo. Alla prova, la prima si rivelò fortissima, il secondo incertissimo. L'obiettivo di tale azione militare era, però, incerto. Era, infatti, irragionevole mirare Roma partendo da così lungi. Altri sostennero che Garibaldi fosse giunto in vista di una spedizione di volontari in Grecia, allora scossa da una forte instabilità interna. La spedizione sarebbe stata delineata in intesa (indiretta) con il Sovrano, senza giungere ad alcuna maturazione.
    • ipotesi simbolica: l'unica circostanza certa era l'altissima simbolicità della presenza dei reduci della spedizione dei mille, a soli due anni di distanza, sui luoghi del loro trionfo, in presenza della stessa popolazione, per giunta giubilante.
    In definitiva sembra possibile affermare che il generale fosse sbarcato sull'isola per saggiare di persona la popolarità della politica democratica e di un'eventuale ripresa di iniziativa rivoluzionaria. Le accoglienze a Palermo ed a Marsala furono talmente entusiaste, da deciderlo a guidare una nuova spedizione, partendo proprio da Marsala, come due anni prima. L'obiettivo maturò, forse, per via: proprio nel corso di uno di questi festeggiamenti, pare a Marsala, dalla folla qualcuno gridò o Roma o morte. Garibaldi rimase colpito dall'immediatezza del messaggio e lo assunse a proprio motto.
    Le autorità, terrorizzate e prive di ordini, lasciarono che egli facesse avanzare indisturbate tre colonne sino a Catania, raccogliendo volontari.

    L'eventualità di ripetere la spedizione dei Mille

    Quando le notizie giunsero a Torino, Rattazzi e il Re dovettero valutare attentamente la opportunità di ripetere, appena due anni dopo, il successo ottenuto da Cavour con la spedizione dei Mille.
    Si trattava, in effetti, di uno schema simile a quello del 1860: l'Italia era piena di volonterosi, vogliosi di mettersi sotto la guida di Garibaldi. L'armamento ed i quadri attinti dalle vecchie Camicie Rosse. I finanziamenti sarebbero giunti dal governo. Il successo della spedizione avrebbe provato l'incapacità del Papato di garantire, in forme accettabili, l'ordine pubblico nei propri domini.
    Vi erano, tuttavia, due differenze che, nel corso delle settimane, si sarebbero dimostrate insuperabili: mentre la caduta del Borbone era apparsa come lo sviluppo di una sollevazione interna (la rivolta siciliana), la caduta del Papato sarebbe senz'altro apparsa come un'aggressione esterna: un'aggressione italiana. Il governo italiano, inoltre, non poteva godere dell'appoggio della Francia di Napoleone III la quale, anzi, si era eretta a potenza protettrice del Papato. Pio IX, d'altra parte, non aveva commesso l'errore del Borbone di appoggiarsi all'Austria, anzi faceva totale affidamento, sin dal 1849, sulle armi francesi.
    Il nuovo Regno, infine, era duramente impegnato nella repressione del brigantaggio che, in quella prima fase, aveva assunto le forme di una guerriglia capillare e diffusa un po' su tutte le antiche province continentali delle Due Sicilie: sarebbe dunque stato difficile riprendere la politica di espansione territoriale prima di aver messo sotto controllo l'ordine pubblico nel Mezzogiorno.

    La crescente ostilità del governo italiano

    La risposta del governo di Torino fu, alla prova dei fatti, assai ferma e relativamente tempestiva. Il prefetto di Palermo, Pallavicino venne destituito per aver assistito, senza reagire, all'infuocato discorso tenuto da Garibaldi il 15 luglio, quando aveva attaccato Napoleone III (il principale alleato del Regno d'Italia) e invocato la liberazione di Roma.
    Il 3 agosto il Re pubblicò un proclama in cui sconfessava "giovani … dimentichi … della gratitudine verso i nostri migliori alleati" e ne condannava le "colpevoli impazienze". Negli stessi giorni Rattazzi proclamava in tutta la Sicilia lo stato d'assedio.
    Giorgio Pallavicino venne sostituito il 12 agosto dal generale Cugia e poi, il 21 agosto, da Cialdini, mentre il 15 agosto il Mezzogiorno continentale veniva affidato a La Marmora e messo sotto stato d'assedio: Cialdini e La Marmora erano i due più importanti militari italiani, e il loro incarico è un chiaro indice dell'importanza che il governo attribuiva alla faccenda.
    Una squadra navale (affidata ad Albini) fu incaricata di impedire il passaggio di Garibaldi in Calabria. Le truppe dislocate in Calabria, numerose in quanto impegnate nella lotta al brigantaggio, vennero allertate (e proprio ad esse appartenevano i bersaglieri che avrebbero dato il maggior contributo a bloccare la marcia di Garibaldi).
    Il regno d'Italia pareva mettere in campo tutta la propria possibile credibilità patriottica: il generale che avrebbe fermato Garibaldi di lì ad un mese in Aspromonte, il colonnello Emilio Pallavicini era medaglia d'oro per l'assedio di Civitella del Tronto (l'ultima fortezza presa al Borbone il 20 marzo 1861), veterano di Crimea e della liberazione di Perugina, ferito a San Martino; Luigi Ferrari, l'ufficiale che sarebbe stato ferito dai garibaldini negli scontri, era veterano della prima e della seconda guerra di indipendenza nonché dell'Assedio di Gaeta, medaglia d'argento a San Martino ed alla liberazione di Ancona. Ma come fermare Garibaldi: un uomo che tanto aveva fatto per la Nazione e che godeva dell'illimitata stima dell'opinione pubblica italiana e liberale nel mondo?

    Lo sbarco in Calabria

    A Catania Garibaldi prendeva possesso dei piroscafi Abbattucci e Dispaccio, “capitati nel porto di Catania”, e prendeva il mare nella notte. Dopo una breve navigazione notturna, alle quattro del mattino del 25 agosto 1862, sbarcava alla testa di tremila uomini in Calabria, tra Melito e Capo dell'Armi.
    Una squadra della Marina Regia era di vedetta. Non si sa cosa accadde all'uscita dal porto: i capitani sostennero di non aver avvistato le navi in uscita, ma Garibaldi, nelle Memorie, afferma il contrario. Sicuramente, appena i volontari presero terra ed imboccarono la strada del litorale verso Reggio Calabria, essi vennero bombardati da una corazzata italiana, mentre le avanguardie furono prese a fucilate da truppe uscite da Reggio. Tanto da spingere Garibaldi a deviare per il massiccio dell'Aspromonte. In ogni caso la posizione di sbarco venne segnalata e la colonna intercettata. Dunque, o i capitani di vedetta a Catania non se la sentirono di eseguire ordini che il capitano della corazzata, al contrario, seguì alla lettera, ovvero si preferì evitare uno scontro in mare che avrebbe comportato assai più vittime garibaldine di uno scontro sulla terraferma.
    In ogni caso Garibaldi non voleva uno scontro: diede ordine di non rispondere al fuoco e proseguì per la montagna, lontano dai cannoni della Marina Regia e cercando di evitare di essere agganciato. La sera del 28 agosto 1862 la colonna raggiunse una posizione ben difendibile, a pochi chilometri da Gambarie, nel territorio di Sant'Eufemia d'Aspromonte. La colonna aveva marciato per tre giorni, e si sfamò saccheggiando un campo di patate. Nel frattempo si era ridotta a circa 1 500 uomini, a causa delle diserzioni e degli arresti. Verso mezzogiorno del 29 agosto Garibaldi fu informato dell'arrivo di una grande colonna del Regio Esercito. Ma decise di rimanere ad aspettare la truppa. Una decisione che, nelle Memorie, si rimproverò. Era altresì difficile continuare una fuga infinita che si prospettava lunga e senza risultati.
    Schierò, comunque, la colonna in ordine di battaglia, sull'orlo di un bosco, in posizione dominante: la sinistra su un monte, Menotti al centro, Corrao a destra.

    Lo scontro a fuoco

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    Foro d'entrata della pallottola nello stivale di Giuseppe Garibaldi


    I regolari presero contatto con i volontari alle quattro di pomeriggio del 29 agosto. Ben 3 500 uomini. Ben disposti, i volontari osservavano la veloce marcia d'avvicinamento dei Bersaglieri, guidati da Pallavicini.
    Giunti a lungo tiro di fucile, Pallavicini dispose la truppa a catena, i bersaglieri davanti, ed avanzò risolutamente sui volontari “a fuoco avanzando”.
    A quel punto il Generale corse di fronte alla propria linea e prese ad urlare di cessare il fuoco: “No, fermi. Non fate fuoco. Sono nostri fratelli”. Fu ubbidito dal grosso dei volontari, sinché il centro del Menotti prese a rispondere, anzi caricò i bersaglieri e li respinse. Garibaldi sostenne che si trattava di “poca gioventù bollente” che reagì per la insostenibile tensione. Sicuramente avevano contravvenuto ad un suo ordine esplicito.
    Negli altri settori, gli assalitori, non trovando resistenza, continuavano a salire sparando ed accadde l'inevitabile: Garibaldi, in piedi allo scoperto fra le due linee, ricevette due palle di carabina, all'anca sinistra e al malleolo destro, quest'ultima ferita fu causata dal tenente Luigi Ferrari, comandante di compagnia del 4º battaglione. Nel contempo veniva ferito al polpaccio sinistro anche Menotti. Immediatamente dopo anche Ferrari venne colpito, dal fuoco di risposta, nel medesimo punto. L'episodio della ferita di Garibaldi sarà ricordato in una celebre ballata cantata su un ritmo di marcia dei bersaglieri.
    Caduto il generale, i volontari si ritrassero nella foresta retrostante, mentre i loro ufficiali correvano attorno al ferito. Anche i bersaglieri cessarono gli spari. Lo scontro era durato una decina di minuti, abbastanza per causare la morte di sette garibaldini e cinque regolari e il ferimento di venti garibaldini e quattordici regolari: se i volontari si fossero difesi, tenuto conto della loro forte posizione, la sproporzione delle vittime sarebbe stata fortemente a sfavore dei regolari. Alcuni bersaglieri che lasciarono le proprie posizioni per raggiungere le file dei garibaldini, vennero in seguito arrestati e fucilati.

    L'arresto di Garibaldi

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    Garibaldi ferito dopo la battaglia nell'Aspromonte


    Garibaldi era appoggiato ad un pino, (ancor oggi esistente) con in bocca un mezzo toscano. Veniva soccorso da tre chirurghi (Ripari, Basile e Albanese), aggregati ai volontari.
    Sopraggiunse dalle linee del Regio Esercito il tenente Rotondo a cavallo: senza salutare intimò a Garibaldi la resa. Il Generale lo rimproverò e lo fece disarmare. Intervenne allora il comandante colonnello Pallavicini che ripeté la richiesta, ma dopo essere sceso da cavallo, parlandogli all'orecchio e con la dovuta cortesia. Tra i bersaglieri Garibaldi riconobbe soldati ed ufficiali che erano stati con lui in campagne precedenti: li vide rattristati e contriti.
    Il Generale venne adagiato su una barella di fortuna, e trasportato a braccia in direzione di Scilla. A tarda sera venne ricoverato nella capanna di un pastore di nome Vincenzo, bevve brodo di capra e dormì su un letto improvvisato fatto dei cappotti offerti dagli ufficiali del suo Stato Maggiore. All'alba riprese la marcia e il Generale venne riparato dal sole con un improvvisato ombrello di rami d'alloro. Giunto al mare, pare che il municipio di Scilla, evidentemente non del tutto conscio delle circostanze, proponesse di offrire un rinfresco di saluto, ottenendone un prevedibile rifiuto. Garibaldi chiese di essere imbarcato su una nave inglese. Tuttavia era prigioniero e, ovviamente, il permesso gli venne rifiutato.
    Venne invece imbarcato sulla pirofregata Duca di Genova, insieme a Menotti, una decina di ufficiali ed i tre medici. Assisteva, dalla tolda della Stella d'Italia, il generale Cialdini incaricato straordinario per la direzione politica e militare della Sicilia e che il 26 agosto, incontrando a Napoli La Marmora si era riservato anche il comando della zona dove operava Garibaldi. Cialdini non si degnò neppure di salutare il vinto. Episodio che testimonia l'ostilità con la quale l'avventura era stata accolta dai moderati.

    La permanenza del Garibaldi in fortezza

    Sbarcato il 2 settembre nel porto militare della Spezia, il Generale fu destinato al Varignano, un ex-lazzaretto convertito in stabilimento penitenziario, che allora ospitava 250 condannati ai lavori forzati. Venne alloggiato in un'ala della palazzina del comandante del carcere, una stanza per sé e cinque per familiari e visitatori.
    La ferita più insidiosa era quella al piede destro. La prima relazione medica recitava: “La palla è penetrata a tre linee al di sopra e al davanti del malleolo interno: la ferita ha una figura triangolare a lembi lacerocontusi del diametro di mezzo pollice circa. Alla parte opposta, mezzo pollice circa al davanti del malleolo esterno, si avverte un gonfiore che sotto il tatto è resistente...”. Proprio il gonfiore dovuto all'artrite (che da anni perseguitava il Generale) rese difficile verificare la posizione della pallottola. Né si era certi della sua reale presenza. Essa venne accertata solo a fine ottobre alla Spezia, e l'estrazione avvenne solo il 23 novembre a Pisa, ad opera del professor Ferdinando Zanetti.
    Dei circa 3 000 volontari guidati da Garibaldi, solo alcune centinaia riuscirono a fuggire. Vennero arrestati 1 909 garibaldini, riaccompagnati alle loro dimore 232 minorenni, mentre i militi che avevano abbandonati i loro reparti regolari per unirsi a Garibalidi, vennero rinchiusi nelle antiche fortezze sarde (Alessandria, Vinadio, Bard, Fenestrelle, Exilles, Genova). Essi (e lo stesso Garibaldi) vennero amnistiati alla prima occasione possibile: il matrimonio di Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II con il re del Portogallo il 5 ottobre 1862.
    Dopo l'amnistia e l'estrazione della pallottola, Garibaldi rientrò a Caprera, da dove non si mosse per i successivi due anni (sino al trionfale viaggio in Inghilterra). Rientrò in combattimento solo per la terza guerra di indipendenza guidando una brillante campagna nel Trentino culminata nella vittoria di Bezzecca.
    Le autorità militari in Sicilia, cercando di farsi perdonare la eccessiva tolleranza dell'agosto, attuarono una vera e propria “caccia al garibaldino”, che portò al massacro di sette volontari nella provincia di Messina (eccidio di Fantina).

    Le accuse a Rattazzi e al Re

    Restava il fatto che Garibaldi avesse potuto traversare l'intera Sicilia senza essere fermato. Rattazzi venne quindi accusato di averlo incoraggiato, o perlomeno di aver intrattenuto rapporti ambigui, sicuramente di non averne rifiutato le intenzioni con sufficiente decisione. I sospetti si indirizzarono anche sul Re, che aveva la tendenza a condurre una politica personale, separata da quella del governo. L'accusa (ad esempio Denis Mack Smith) è che uno dei due, o entrambe, abbiano illuso Garibaldi circa la realizzabilità dell'impresa. Salvo abbandonarlo quando la marcia aveva già avuto avvio.
    Tali commenti, in effetti, riprendono le accuse lanciate già nel 1862 dagli ambienti garibaldini e mazzininiani ma, a smentirle, basterebbero gli interventi degli antichi commilitoni di Garibaldi, come Cucchi e Türr, o di Medici che, inviandogli il proclama del Re, lo scongiurava di evitare la guerra civile. A Regalbuto, prima di imbarcarsi per la Calabria, il Generale fu raggiunto da una delegazione di deputati della Sinistra, latrice di una missiva firmata anche da Crispi di simile tenore, egualmente infruttuosa.
    L'unico elemento certo è che nel marzo 1862 Garibaldi era a Torino e vi incontrava più volte il Re, e Rattazzi. Certamente il desiderio di vedere liberate Venezia e Roma era autenticamente popolare e restavano obiettivi fortemente condivisi dai governi. Rimane però aperta la questione se ciò basti ad accusare di errore politico il governo regio: se sia stato il coraggio ed il senso dello Stato di quest'ultimo a prevalere, o incapacità di raggiungere con la presa di Roma uno degli obiettivi centrali del Risorgimento.
    Rimane il dubbio se il Rattazzi abbia davvero pensato di convincere Napoleone III a lasciargli prendere Roma per impedire ai radicali di conquistarla con la forza, come tramanda un'antica tesi di parte mazziniana. Sicuramente, però, il Rattazzi era stato responsabile di avere, in una prima fase, temporeggiato: per questo fu costretto alle dimissioni nel novembre 1862.

    Conseguenze

    La leggenda nera del governo italiano

    Il ferimento di Garibaldi ebbe grande risonanza: a Londra 100 000 persone si radunarono a Hyde Park per manifestare la loro solidarietà. Lord Palmerston offrì un letto speciale per la convalescenza dell'eroe.
    Il partito mazziniano fece, in particolare, leva sull'episodio, per dichiarare tradito l'accordo tacito fra i repubblicani e la monarchia, mentre per i monarchici erano i mazziniani a tradire con iniziative avventate gli interessi della Nazione. Il governo venne accusato di aver combattuto “per il Papa” e di aver tradito la rivoluzione italiana. Lo stesso Garibaldi accusò nelle Memorie il Pallavicini di aver comandato ai suoi soldati l'“esterminio” dei volontari.
    Tali posizioni hanno avuto una certa risonanza e sono state ripetute fino ai nostri giorni da molti storici (ad esempio Denis Mack Smith), mentre altri, compresi alcuni contemporanei, dimostravano una più generale avversione verso disavventure come quella dell'Aspromonte, sottolineandone l'inattuabilità.

    La convenzione franco-italiana

    Dimessosi Rattazzi, dopo un brevissimo governo guidato da Farini, nel 1863 il Re incaricò il moderato bolognese Marco Minghetti.
    Facendosi forte della decisa azione italiana contro l'eroe nazionale, Minghetti fu in grado di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia: con la convenzione franco-italiana del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a rispettare l'indipendenza del residuo “Patrimonio di San Pietro” e di difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno); Napoleone III a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento.
    La convenzione aveva lo scopo di eliminare dalla penisola ogni presenza militare francese, senza pregiudicare eccessivamente le aspirazioni italiane su Roma. Era un obiettivo importante e lo stesso Garibaldi, all'inizio della spedizione dell'Aspromonte, aveva dichiarato inammissibile tollerare ulteriormente la presenza di truppe straniere in Italia. Si otteneva, inoltre, il non intervento francese in caso che il potere temporale fosse stato rovesciato da un movimento popolare interno: il caso non si verificò ma, per comprendere l'importanza della concessione francese, occorre ricordare che Pio IX era stato cacciato già una volta dal popolo romano, appena 15 anni prima, nel 1849 (Repubblica Romana).

    Il trasferimento della capitale a Firenze

    La convenzione includeva anche una clausola segreta, la vera contropartita italiana: il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Per dimostrare la propria estraneità al controverso provvedimento (moti di Torino), il Re si disse non informato e licenziò Minghetti con un telegramma sostituendolo il 28 settembre 1864 con Alfonso La Marmora. Quest'ultimo completò di fatto il trasferimento della capitale a Firenze in tempo record (3 febbraio 1865).

    La continuazione delle tensioni per Roma capitale

    L'obiettivo dell'annessione di Roma rimaneva, comunque, assai popolare, né il regno d'Italia rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito, a suo tempo, da Cavour in persona.
    Solo cinque anni dopo, profittando della immensa popolarità derivatagli dalla vittoria di Bezzecca, Garibaldi avrebbe ritentato l'impresa (battaglia di Mentana). Era di nuovo al potere Rattazzi, che, questa volta, agì preventivamente facendo arrestare Garibaldi. Ma quando il generale sfuggì rocambolescamente da Caprera e sbarcò in Toscana, Rattazzi fu costretto dal Re a rassegnare nuovamente le dimissioni (19 ottobre 1867), e terminò la sua carriera politica.
    La questione romana venne risolta solo il 20 settembre 1870 quando, sconfitto Napoleone III dai Prussiani nella battaglia di Sedan e proclamata in Francia la repubblica, il governo di Giovanni Lanza fu, finalmente, libero di inviare un corpo d'armata al comando di Cadorna che entrava a Roma attraverso la Breccia di Porta Pia. Da segnalare che a Cadorna vennero affiancati, come generali di divisione, due ex-garibaldini: Bixio e Cosenz.

    Ricordi

    Per le operazioni in Aspromonte venne conferita la medaglia di bronzo alla 6ª ed alla 25ª brigata. Medaglia d'oro al valore individuale per grave ferita al tenente Luigi Ferrari il bersagliere che ferì Garibaldi.
    La famosa canzoncina «Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba...» è rimasta, dal quel lontanissimo 1862, ancora assai popolare.
    La giornata dell'Aspromonte è riportata nella toponomastica di molte città italiane.
    La pallottola estratta dal piede del Garibaldi è oggi esposta al Museo del Risorgimento di Roma, al Vittoriano. Il punto dove fu ferito Garibaldi è oggi ricordato da un cippo: Cippo Garibaldi. Ancora sopravvive il pino al quale il generale, ferito, si era appoggiato.
    Ancor oggi, quando taluno vuole accusare un governo italiano di tradire le aspettative popolari o di tradire la Nazione, cita la giornata dell'Aspromonte.

    I delusi dall'unità

    All'indomani dell'unità, molte delle aspettative generate dalla spedizione dei mille furono deluse dallo stato unitario appena formatosi. Nelle Due Sicilie i contadini e gli strati più poveri della popolazione, dopo aver inizialmente creduto che con Garibaldi le condizioni di vita sarebbero migliorate, si ritrovarono, invece, ad affrontare maggiori tasse e la coscrizione (servizio di leva) obbligatoria, con una conseguente diminuzione delle braccia in grado di sostenere una famiglia.
    Ne I Malavoglia di Giovanni Verga appare chiara la disillusione, seguita da una cocente delusione, della popolazione di fronte alla nuova Italia unita, attraverso i racconti della lunga coscrizione del giovane 'Ntoni, la morte del giovane Luca nella battaglia di Lissa e le nuove tasse. La cocente delusione di chi sperava che l'unità d'Italia avrebbe cambiato le sorti del Sud è ben raccontata anche nel romanzo di Anna Banti, Noi credevamo. Nel meridione continentale questo malcontento popolare sfociò nel movimento di resistenza definito brigantaggio.
    Lo stesso Garibaldi nel 1868 scrisse in una lettera ad Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.»
    Delusi furono anche molti liberali che avevano riposto nell'unità d'Italia la realizzazione delle loro ambizioni, ma che si ritrovarono in una situazione politica sostanzialmente immutata, mentre lo sviluppo che si stava realizzando nel periodo borbonico cessò di colpo. Il patriota Luigi Settembrini, mentre era rettore all'università di Napoli, disse agli studenti: «Colpa di Ferdinando II! Se avesse fatto impiccare me e gli altri come me, non si sarebbe venuto a questo!». Rimase rammaricato anche Ferdinando Petruccelli della Gattina, che nella sua opera I moribondi di Palazzo Carignano (1862), espresse la sua amarezza nei confronti della negligenza della nuova classe politica. Anche il clero rimase deluso, sia per la perdita di Umbria e Marche da parte dello Stato pontificio, sia per il frequente esproprio di beni ecclesiastici, la soppressione degli Ordini Religiosi e la chiusura di numerosi istituti di utilità sociale.

    Critica storiografica

    La spedizione dei Mille è un passaggio obbligato per capire la storia dello Stato unitario italiano ed ha generato diverse controversie su come sia stato concepito. Diversi storici vedono nell'impresa garibaldina il punto d'origine di fenomeni complessi come il Brigantaggio postunitario, lo squilibrio nord-sud, l'emigrazione (assente nel Sud Italia prima dell'unità) e la cosiddetta "Questione meridionale".
    Qualche corrente di pensiero ritiene che la spedizione dei Mille sia stata narrata in modo "agiografico" dalla storiografia tradizionale. Ciò, in particolare, a fronte della damnatio memoriae che toccò alla dinastia borbonica e al brigantaggio che fu ferocemente represso dal nuovo Regno d'Italia. Nel decennio successivo all'unità si scatenò una vera e propria guerra civile: furono necessari 140.000 militar, la sospensione dei diritti civili (Legge Pica), l'esercizio del diritto di rappresaglia sulla popolazione civile, nonché devastazioni e saccheggi di interi abitati (come a Pontelandolfo e Casalduni) per poter pacificare le province dissidenti. Nell'iconografia tradizionale, la discussa figura di Garibaldi assume facilmente le sembianze dell'eroe che combatte e vince contro un esercito ben più numeroso, mentre i tanti "briganti" che in seguito combatterono contro un ben più organizzato esercito piemontese ebbero il torto di essere perdenti. Quindi, secondo i revisionisti del Risorgimento, il mito di Garibaldi sarebbe stato funzionale agli assetti di potere vincenti.
    Lo storico inglese Denis Mack Smith ne "I re d'Italia", con riferimento al periodo storico che comincia dall'unità d'Italia (1861), scrive: "La documentazione di cui disponiamo è tendenziosa e comunque inadeguata. ... gli storici hanno dovuto essere reticenti e, in alcuni casi, restare soggetti a censura o imporsi un'autocensura."
     
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