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Questione meridionale

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  1. Isabel
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    Questione meridionale

    questionemerid

    Info - Scheda Wikipedia

    « Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale. »
    (Giustino Fortunato)

    La definizione questione meridionale venne usata per la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billia, intendendo la disastrosa situazione economica del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell'Italia unificata.

    Situazione prima dell'Unità

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    Mappa del XIX secolo del Regno delle Due Sicilie

    Inquadramento e situazione Politica

    L'origine delle differenze economiche e sociali tra le regioni italiane è da tempo controversa, anche a causa delle relative implicazioni ideologiche e politiche. La corrente storiografica maggioritaria sostiene che le differenze tra le diverse aree della penisola fossero già molto marcate al momento dell'Unità: l'agricoltura intensiva della pianura Padana, l'impulso alla costruzione di strade e ferrovie del Piemonte, e il ruolo del commercio e della finanza vengono contrapposti all'impostazione di tipo feudale che ancora caratterizzava il Regno delle Due Sicilie. Altre correnti storiografiche, invece, tendono a valorizzare l'originalità del Sud e ad attribuirne l'impoverimento alle politiche perseguite dal nuovo stato unitario. Viene generalmente riconosciuto come, nel clima di restaurazione successivo ai moti siciliani del 1848 il Regno delle due Sicilie perseguisse una politica conservatrice. A partire dal 1850, il Piemonte di Cavour era guidato da un élite liberale che impresse una radicale accelerazione, con lo scopo dichiarato di confrontarsi con le maggiori potenze europee. Il codice venne riformato sul modello di quello francese, più avanzato ma decisamente centralista. Venne fondata una nuova banca per fornire credito alle imprese industriali e vennero ridotti significativamente i dazi, in media del 10%, da confrontare con anche il 100% presente nel Sud. Vennero inviati tecnici in Inghilterra per studiare lo sviluppo bellico, e venne dato un forte sviluppo alle infrastrutture: il Canale Cavour, iniziato nel 1857, rese fertilissima la regione di Vercelli e Novara, le ferrovie vennero ampliate tanto che nel 1859 il Piemonte possedeva metà del chilometraggio dell'intera penisola, e la galleria del Moncenisio permise presto di raggiungere Parigi in un solo giorno di viaggio. Al contrario il governo borbonico ricalcava un modello aristocratico, basato su livelli inferiori di tasse e basse spese per le infrastrutture. La politica economica era paternalista: la produzione interna era protetta da alti dazi per l'importazione delle merci e il prezzo degli alimenti era tenuto basso dalla proibizione di esportare il grano, mentre la proprietà della terra era concentrata tra pochi possidenti che la tenevano a latifondo, o tenuta a Manomorta dalla Chiesa, mentre valevano ancora diritti feudali di decima e di fruizione pubblica di terreni comunali.

    Situazione economica

    Per interpretare correttamente la situazione economica e sociale, bisogna considerare che il Regno non era una realtà uniforme al proprio interno, e che anzi le differenze regionali erano più marcate di quelle dell'Italia moderna. In generale, la ricchezza aumentava dall'entroterra alle coste, e dalle campagne alla città. Napoli era la terza città più popolosa d'Europa dopo Londra e Parigi, e la sua provincia (forte anche delle rendite del governo e della corte) poteva competere con le province più sviluppate del nordovest mentre esistevano aree estremamente povere, come l'entroterra calabrese o lucano. La Sicilia costituiva un caso a parte: la fine dei moti del '48 ne aveva ristabilito la riunificazione con il resto della penisola, tuttavia l'indipendentismo continuava ad essere forte e sarebbe stato determinante nel sostegno allo sbarco garibaldino. Soprattutto, nel Regno delle due Sicilie il metodo di coltivazione era basato sul sistema feudale: latifondi coltivati da braccianti producevano grano per il solo autoconsumo. Gli aristocratici che li possedevano non vivevano nei loro possedimenti e trovavano disdicevole occuparsi della loro gestione. Di conseguenza non avevano interesse a investire nel migliorare le tecniche produttive o in colture più redditizie come l'ulivo o i frutteti, che potevano diventare produttivi anche dopo una decina di anni, preferendo la coltivazione annuale del grano, anche su terreni inadatti: nel 1851 Nassau Senior notava come in Sicilia la produzione per ettaro fosse invariata fin dai tempi di Cicerone. I prezzi risultanti erano alti, e assieme alle barriere doganali scoraggiavano il commercio. La situazione dell'Italia preunitaria era, in genere, svantaggiata rispetto quella degli altri Stati dell'Europa occidentale e decisamente povera rispetto agli standard attuali. In un paese relativamente sovrappopolato e povero di materie prime, l'economia era profondamente basata sull'agricoltura. Dei 22 milioni di abitanti registrati dal censimento del 1861, 8 erano occupati nell'agricoltura, contro i 3 occupati nell'industria e nell'artigianato. Oltretutto, di questi l'80% circa erano donne occupate solo stagionalmente. Secondo la visione tradizionale, il livello di produttività delle differenti regioni era però radicalmente diverso, sia per cause naturali che per le tecniche adottate. La natura del territorio meridionale riduce la disponibilità e la regolarità delle acque riducendo e possibilità di coltivazione. Il secolare disboscamento e la mancanza di investimenti per la cura del territorio e la canalizzazione facilitavano l'erosione e il permanere di paludi anche molto estese, come quelle Pontine o del Fucino. In diverse zone Le malattie infettive portate dalle zanzare anofele spingevano le popolazioni a ritirarsi sulle colline.

    La vita dei braccianti doveva essere ben misera: la malaria, i briganti e la mancanza d'acqua costringevano le popolazioni ad ammassarsi in villaggi che distavano anche una ventina di chilometri dalle zone in cui esse lavoravano. L'analfabetismo era pressoché completo, e ancora nel 1861 esistevano luoghi in cui l'affitto, le decime al parroco, la "protezione" dei campieri venivano pagati in natura. La disoccupazione era diffusa, tanto che osservatori dell'epoca riportarono come un contadino del Sud guadagnasse la metà di un suo equivalente del Nord nonostante i salari fossero paragonabili. Al contrario il nordest del paese avrebbe almeno in parte recepito le tecniche della rivoluzione agricola del nordeuropa, introdotte nel corso delle campagne napoleoniche. L'agricoltura era praticata da fattori nel Nord e da mezzadri in Toscana, e alimentata dai capitali delle città, che agivano come centri finanziari. La legislazione delle acque era più avanzata e l'intensa canalizzazione permetteva la cultura intensiva del riso, che poteva essere esportato. Per quanto riguarda l'industria, al momento dell'Unità era costituita soprattutto una serie di attività artigianali al servizio delle élites. L'Italia, è infatti un paese di seconda industrializzazione, perché la mancanza di materie prime (ferro e carbone) ne hanno rallentato lo sviluppo industriale fino a circa il 1880. Parallelamente, il basso costo del lavoro, la difficoltà di accesso ai capitali e la mancanza di esperienza tecnica scoraggiavano l'acquisto di macchinari dall'estero per sostituire il lavoro manuale. Faceva parziale eccezione la tessitura meccanizzata, diffusa dal 1816 soprattutto nel nordovest, più ricco di corsi d'acqua, e che con l'arrivo del telaio a vapore avrebbe costituito la base di un capitalismo industriale diffuso. I principali prodotti da esportazione erano la lana e la seta lombarde e piemontesi, seguiti dallo zolfo siciliano, utilizzato per la polvere da sparo. Nell'estrazione dello zolfo erano impegnati importanti capitali inglesi, e sarebbe rimasto rilevante per l'economia Siciliana fino all'affacciarsi della concorrenza degli Stati Uniti. Il Sud non era privo di industrie: vengono spesso citate a titolo di esempio le officine di Petrarsa, la ferriera di Mongiana e i cantieri navali di Castellamare di Stabia, fortemente volute dalla Corona in quanto strategiche per ridurre la dipendenza dalle importazioni inglesi. Il loro impatto sull'economia globale del Regno dev'essere però considerato limitato. Nel campo dei trasporti vennero conseguiti alcuni primati sorprendenti, come la prima nave a vapore in Italia e il primo ponte di ferro. Ma all'investimento in strade e ferrovie, reso difficile dall'entroterra collinoso, venne soprattutto preferito il trasporto marittimo, facilitato dalla significativa estensione delle coste tanto che la flotta mercantile borbonica divenne la terza in Europa per numero di navi e per tonnellaggio complessivo. L'inaugurazione nel 1839 degli 8 km della Napoli-Portici, prima ferrovia italiana, aveva suscito grande entusiasmo. Tuttavia, solo 20 anni dopo le ferrovie settentrionali si estendevano per 2035 km, mentre Napoli era collegato soltanto con Capua e Salerno, totalizzando un 98 km di linea ferrata. Analogamente, secondo Nicola Nisco, nel 1860 erano privi di strade e quindi di fatto irraggiungibili ben 1621 paesi su 1848. Così de Cesare descrive il viaggio di re Ferdinando II in Calabria e Sicilia, nel 1852:

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    30 Ducati, 1850


    La penuria di capitali era sentita ovunque, ma particolarmente al Sud, dove i risparmi venivano immobilizzati in terreni o in monete preziose. Nel saggio "Nord e Sud", Nitti rileva che quando le monete degli stati preunitari vennero unificate, al sud vennero ritirate 443 milioni di monete di vari metalli, da confrontare con i 226 milioni di tutto il resto d'Italia. La sostituzione consentì di ritirare diversi tipi di metalli preziosi, generando la sensazione di una vera espropriazione, tanto che ancora nel 1973 Antonio Ghirelli sostiene che 443 milioni di lire d'oro siano "finiti al Nord".resta da verificare se le monete siano state sostituite con banconote e chi ha acquisito l'equivalente in metallo. Va ricordato che lo sviluppo del Piemonte ebbe un prezzo: i conti pubblici vennero gravemente inficiati sia dallo sforzo di modernizzare l'economia che dalle guerre di unificazione. Con la nascita dell'Italia unita il passivo di bilancio del Regno di Sardegna fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano.

    Studi economici quantitativi

    Negli ultimi decenni la discussione sulle differenze economiche tra Nord e Sud all'Unità ha avuto un nuovo impulso grazie alla ricostruzione delle serie storiche di indicatori economici significativi. La ricerca è resa difficoltosa dalla mancanza di dati precedenti al 1891, e in particolare le serie perdono di significato prima del 1871 a causa degli sconvolgimenti del decennio precedente. Ha avuto in particolare risonanza la ricostruzione (peraltro contestata) in cui Vittorio Daniele e Paolo Malanima, si concentrano sul PIL pro capite in quanto indicatore del benessere nelle varie regioni italiane, arrivando a concludere che non ci fossero divari rilevanti tra le regioni all'Unità.

    Situazione politica

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    Ritratto di Marco Minghetti


    Nel febbraio 1861 si riunirono per la prima volta a Torino i rappresentanti delle regioni unificate, che un mese dopo avrebbe conferito a Vittorio Emanuele il titolo di Re d'Italia per grazia di Dio e volontà della nazione. Il modo in cui dovesse essere governata era però ancora da definire. Il Re e la corte erano stati scomunicati a causa dell'invasione della parte adriatica dello stato pontificio, e ai cattolici era proibito partecipare alla vita politica. La maggior parte dei governanti non conosceva affatto il meridione, non avendo mai viaggiato più a sud di Napoli o avendo passato lunghi anni in esilio come oppositori dei Borboni. Si erano convinti che la ricchezza del sud fosse fino rimasta inespressa a causa del malgoverno precedente e che l'unificazione dell'Italia ne avrebbe da sola liberato le ricchezze nascoste. Non conoscevano la povertà delle campagne o lo stato delle infrastrutture, e questo li portò tra l'altro a imporre tasse superiori a quanto il territorio potesse pagare. Oltretutto la partecipazione al voto era per censo, quindi i deputati del Sud rappresentarono più spesso le istanze dei proprietari terrieri che della popolazione. Con la morte di Cavour il 6 giugno, iniziò una serie di governi deboli e di durata spesso inferiore ad un anno. I problemi da risolvere ereno molti: si trattava di unificare otto sistemi giuridici, economici, monetari, perfino di pesi e di misure. L'unificazione era avvenuta in un modo sorprendentemente rapido, e non aveva dato modo all'identità nazionale di affermarsi: questo, unito all'irredentismo verso il Triveneto, ancora austriaco, e verso Roma e il Lazio, presidiati da una guarnigione francese, creava la pericolosa tentazione di provare le forze del nuovo stato in una guerra verso lo straniero. L'italiano era parlato da una minoranza istruita della popolazione, e i plebisciti che avevano sancito l'unificazione erano avvenuti in modo estremamente discutibile, sia nella forma sia per l'ingerenza delle autorità che avrebbero dovuto sorvegliarli, creando la falsa sensazione di un cosenso di molto superiore al reale, mentre molti meridionali avrebbero espresso piuttosto l'esigenza di maggiore autonomia. Le istanze favorevoli al decentramento amministrativo, rappresentate dal ministo Minghetti vennero frettolosamente abbandonate. Il 3 ottobre venne convertito in legge il decreto che il 2 gennaio aveva esteso al Sud legislazione piemontese, proseguendo quanto fatto con la Lombardia con il decreto legge Rattazzi del 1859. Organizzazioni amministrative, anche gloriose, degli Stati preunitari vennero cancellate in modo acritico promuovendo una progressiva "piemontesizzazione" dalla pubblica amministrazione. I primi provvedimenti del nuovo governo furono volti a recuperare i capitali necessari per unificare il paese e dotarlo delle infrastrutture di cui aveva un pressante bisogno. Fu istituita la leva obbligatoria per il servizio militare e vennero introdotte nuove tasse, e in particolare nel 1868 quella particolarmente odiosa sul macinato che colpiva le fasce più deboli della popolazione con un aumento del prezzo del pane. Venne anche intrapresa una decisa opera di abolizione dei privilegi feudali, tra cui l'importante vendita di ampi terreni demaniali dello stato e della Chiesa. Le intenzioni erano di aumentare la produttività agricola con una distribuzione della terra, ma di fatto questi terreni andarono nelle mani dei possidenti che avevano i capitali per acquistarli e mantenerli. Una risorsa irrecuperabile venne di conseguenza sprecata, con scarso incasso da parte dello stato e l'immobilizzazione di capitali che avrebbero potuto produrre più ricchezza se investiti nel miglioramento dei campi o nell'industria. I coltivatori ebbero ulteriormente a soffrirne non potendo più sfruttare i terreni comuni fino ad allora a disposizione dei vari villaggi. Vennero intraprese anche opere positive, come la realizzazione di opere pubbliche e un nuovo impulso alla realizzazione della rete ferroviaria, ma gli effetti sarebbero stati lenti a presentarsi. Le varie leggi che cercarono di istituire una, seppur minima, istruzione gratuita ed obbligatoria, trovarono un'applicazione difficile soprattutto al sud. L'onere di mantenere le scuole elementari, infatti, incombeva ai comuni, con la conseguenza che molte amministrazioni meridionali non riuscivano ad affrontare le spese necessarie. Bisognerà aspettare l'epoca del fascismo per assicurare un'istruzione di base, quella del secondo dopoguerra per un'istruzione di massa, e la televisione per assistere all'utilizzo dell'italiano in sostituzione dei vari dialetti.

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    Giovanni Giolitti


    Solamente a partire dall'epoca giolittiana il governo centrale fece prova di un primo e tentennante interessamento verso il meridione. Benché non abbia ridotto la povertà o l'emigrazione, nei primi anni del novecento si dotò il sud di amministrazioni pubbliche analoghe a quelle del nord, cosa che portò all'assunzione di un certo numero di impiegati statali. Fu sempre merito del governo centrale se nel 1911, quando lo Stato prese in carico l'istruzione elementare, fino ad allora prerogativa dei comuni. Il peggioramento delle condizioni di vita e la disillusione rispetto alle aspettative create dall'unificazione portarono a una serie di rivolte di popolo a Napoli e nelle campagne, e al fenomeno passato alla storia come brigantaggio, a cui il nuovo Stato reagì con l'invio di soldati e adottando un modello amministrativo di tipo dirigista e autoritario, in cui le autonomie locali venivano sottoposte al rigido controllo del governo centrale. Vittorio Bachelet parlerà di "un certo atteggiamento colonizzatore assunto dall'amministrazione unitaria in alcune regioni". Invero, lo stesso espansionismo piemontese era mirato in un primo tempo ad uno Stato comprendente le regioni dell'Italia settentrionale e non ad uno Stato Nazionale delle proporzioni della nuova Italia, era anzi molto caldeggiata all'epoca sia a nord che a sud una Confederazione di stati. L'annessione del Regno delle Due Sicilie fu un fatto dovuto ad una straordinaria serie di contingenze favorevoli in termini politici.

    Il Brigantaggio

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    Alcuni briganti lucani: Caruso, Cafo, Lamacchia e Tinna


    Il nuovo governo disattese le aspettative sia dei democratici sia dei repubblicani che pure avevano favorito l'unità, ma che auspicavano un nuovo ordinamento agrario e adeguati spazi politici nella gestione del paese, il controllo dell'ordine pubblico divenne sempre più problematico. Molti braccianti meridionali avevano sperato che il nuovo regime assicurasse una qualche riforma agraria. Non solo le loro aspettative andarono deluse, ma il nuovo governo introdusse la leva obbligatoria ed inasprì le imposte, portando alla rovina milioni di persone, ai meridionali infatti furono fatti pagare, attraverso un carico fiscale più alto rispetto al resto dell'Italia, i debiti accumulati dall'ex Regno di Sardegna ed anche le spese della ricostruzione della guerra, una guerra iniziata non per loro volere. Lo scioglimento dell'esercito borbonico e di quello garibaldino mise poi in circolazione migliaia di soldati sbandati. Il malcontento, le difficili condizioni economiche sopravvenute, il durissimo atteggiamento delle truppe di occupazione piemontesi, suscitarono le ire della popolazione che sfociarono nella rivolta armata. Molti scontri si erano già verificati in varie parti del meridione fin dalla fine del 1860, particolarmente aspri intorno alla cittadella borbonica di Civitella del Tronto. In aprile scoppiò una rivolta popolare in Basilicata. Nel corso dell'estate, in molte province dell'interno bande di briganti, formate in gran parte da contadini, ex soldati borbonici, diedero vita a forme di guerriglia violentissima, impegnando le forze piemontesi e battendole ripetutamente. In alcuni centri del sud fu rialzata la bandiera borbonica. Il Governo rispose ordinando esecuzioni sommarie anche di civili e l'incendio di interi paesi. Il luogotenente di Napoli, Gustavo Ponza di San Martino, che aveva tentato nei mesi precedenti una pacificazione, venne sostituito dal generale Enrico Cialdini, che ricevette dal governo centrale pieni poteri per fronteggiare la situazione e reprimere la rivolta. Nel 1860-61 le truppe presenti nel sud ammontavano a 22 000 unità, l'inasprirsi della guerra richiese l'invio di rinforzi. I soldati raggiunsero quota 55.000 a fine 1861, diventarono 105 000 nel 1862 ed arrivando a 120 000 negli anni successivi. Secondo alcuni storici fu una guerra civile, combattuta con ferocia da entrambe le parti e di cui fece le maggiori spese come sempre la popolazione civile: una triste situazione che si ripeté continuamente per tutta la durata della guerra civile era il saccheggio di un paese da parte delle bande di ribelli, seguito dall'intervento dell'esercito alla ricerca di collaborazionisti, che comportava sistematicamente un secondo saccheggio, la distruzione degli edifici che venivano dati alle fiamme, esecuzioni sommarie e spesso la dispersione dei sopravvissuti. Il Presidente Giorgio Napolitano, ricorda in occasione del 150° Anniversario dell'Unità d'Italia che "fu debellato il brigantaggio nell'Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno".

    Brigantaggio postunitario

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    Elementi della banda del brigante Agostino Sacchitiello di Bisaccia, uno dei luogotenenti di Carmine Crocco (Foto del 1862)


    Per Brigantaggio postunitario si intende una forma di movimento armato che, già presente sotto forma di banditismo nel sud peninsulare e in Sicilia in età borbonica e murattiana, si sviluppò ulteriormente subito dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna (da cui ebbe origine lo stato Italiano) assumendo spesso le connotazioni di una rivolta popolare. Con l'appoggio del governo borbonico in esilio e dello Stato Pontificio, la ribellione fu condotta principalmente da elementi del proletariato rurale ed ex militari borbonici (oltreché da renitenti alla leva, disertori ed evasi dal carcere) che, spinti da diverse problematiche economiche e sociali, si opposero alla politica del nuovo governo italiano. L'espressione Brigantaggio postunitario è contestata da taluni degli storici, che considerano tale rivolta motivata politicamente e socialmente: di fatto la prima guerra civile dell'Italia, che infiammò la nazione appena unificata sino il 1867; dopo si verificarono diversi episodi di banditismo che non avevano fondate rivendicazioni politiche o sociali..

    La sua evoluzione storica

    All'indomani della spedizione dei mille e della conseguente annessione del Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d'Italia, diverse fasce della popolazione meridionale cominciarono ad esprimere il proprio malcontento verso il processo di unificazione. Questo malcontento era generato innanzitutto da un improvviso peggioramento delle condizioni economiche dei braccianti della provincia meridionale, che, abituati ad una condizione economica povera ma sopportabile (caratterizzata da un costo della vita moderato, da una bassa pressione fiscale e dalla libera vendita dei prodotti agricoli) si ritrovarono a dover fronteggiare un nuovo regime fiscale per loro insostenibile e una regolamentazione del mercato agricolo svantaggiosa per loro sotto ogni aspetto. Un altro importante motivo che spinse alla rivolta i contadini fu la privatizzazione delle terre demaniali a vantaggio dei vecchi e nuovi proprietari terrieri, che così ampliarono legalmente i loro possedimenti in cambio di un maggior controllo del territorio e della fedeltà al nuovo governo. Tutto ciò danneggiava i braccianti agricoli più umili, cioè quelli che lavoravano a giornata con lavoro precario e senza un rapporto di radicamento nel territorio, che con la sottrazione delle terre demaniali da loro utilizzate si ritrovarono a dover vivere in condizioni economiche ancora più disagiate e precarie rispetto al passato. A tutto ciò si aggiunse l'entrata in vigore della leva obbligatoria di massa, che in periodo borbonico avveniva invece tramite sorteggio e interessava solo pochi uomini, essendo l'organico dell'esercito borbonico, diversamente da quello piemontese, in parte costituito da truppe straniere. In tale contesto si cominciarono a formare, oltre alle bande di contadini e pastori che si davano al brigantaggio come estrema forma di protesta, anche gruppi organizzati di ex soldati del disciolto esercito napoletano, rimasti fedeli alla dinastia borbonica. Tra questi si inserirono anche malviventi e latitanti di vecchia data, adusi a vivere alla macchia. Inoltre, in taluni posti, erano avvenuti da parte dell'esercito di Vittorio Emanuele eccidi e devastazioni (come il massacro di Pontelandolfo il 14 agosto 1861) a causa dei quali i sabaudi non si erano fatti certo amare. Da ultimo, ma non per importanza, l'annessione al Regno d'Italia era sentita dalla parte della popolazione con sentimenti religiosi come una minaccia alla propria fede cattolica e alle proprie tradizioni. La componente religiosa ebbe un'importanza determinante sia perché durante il Risorgimento crebbe una forte connotazione anticattolica, in particolare a causa della questione romana, ragion per cui non poteva godere di un vasto consenso in tutte le classi della popolazione, soprattutto quella rurale. allora intensamente ancorata al proprio sentimento religioso, anche perché il basso clero, a contatto diretto con queste popolazioni, rafforzava l'idea che i liberali "massoni e senza Dio", volessero abbattere radicalmente la "Santa Madre Chiesa". Inoltre dal vicino Stato pontificio, in cui si erano rifugiati i reali borbonici, arrivarono aiuti e costanti incitamenti (fino al 1867) alla lotta armata senza quartiere contro uno Stato che aveva espropriato i beni dei conventi e minacciava la stessa sopravvivenza del potere temporale del Papa.

    L'inizio della rivolta 1860-61

    Già nell'ultima fase della spedizione dei mille i borbonici, asserragliati a nord del Volturno intorno Gaeta, avevano deciso di fare ricorso a formazioni armate irregolari a supporto delle truppe regolari ancora attive tra il Sannio e l'Abruzzo, al fine di coprire il fianco rispetto all'avanzata verso sud dell'esercito sardo, guidato dal generale Enrico Cialdini. Nell'autunno 1860 P. Ulloa, ministro della Polizia borbonico diffuse un documento di istruzioni per la Brigata di Volontari stanziata a Itri, con le seguenti indicazioni: 1) ricostruire il governo di Sua Maestà (D.G.), 2) disarmo delle guardie nazionali e conseguente armamento di chi si unisse alla colonna dei volontari, 3) impadronirsi della casse pubbliche, 4) possibilità di imporre tasse per i bisogni dei volontari, 5) possibilità di esigere il pagamento delle tasse in equivalenti in cereali in mancanza di denaro, 6) arrestare chi si opponesse alla colonna o potesse successivamente recarvi danno, agendo alle sue spalle, 7) arrestare ugualmente chi potrebbe agitare lo spirito pubblico contro la monarchia, 8) tenere stretti collegamenti con i propugnatori della causa regia, 9) mantenere l'ordine e il rispetto della religione e dei suoi ministri, 10) proclamare l'antica fedeltà degli abitanti verso Sua Maestà e l'avversione contro gli invasori del Regno. Conseguentemente a queste istruzioni si mosse una colonna agli ordini del prussiano Klitsche De La Grange diretta verso l'Abruzzo e la fortezza di Civitella del Tronto con l'obiettivo di provocare una serie di focolari di ribellione in grado di tagliare i collegamenti fra le truppe di Garibaldi a sud e quelle piemontesi a nord. La colonna non era costituita da truppe di linea, impegnate nella difesa dell'area circostante Gaeta e Capua, ma da uomini della milizia urbana e polizia siciliana ritiratasi sul continente. A questa seguirono altre due colonne, guidate dai generali Scotti Douglas e von Meckel, sempre dirette verso gli Abruzzi e il Molise. Questa guerra civile interessò quasi tutte le regioni dell'entroterra del regno borbonico annesso al nuovo regno sabaudo italiano, tuttavia il fenomeno fu del tutto assente in quelle regioni del meridione in cui le condizioni economiche erano decisamente migliori, come ad esempio nelle aree urbane e industrializzate, nelle zone agricole più produttive e nell'amplissima fascia costiera del Mezzogiorno e della Sicilia. Infatti la Relazione parlamentare "Massari" del 1863 testualmente riporta: "...Nella provincia di Reggio Calabria difatti, dove la condizione del contadino è migliore, non vi sono briganti." Una delle zone più strategiche delle forze dei briganti divenne per l'appunto il Vulture e il suo capo più rappresentativo fu Carmine Donatelli Crocco di Rionero in Vulture. Il brigantaggio si contrappose prima alle milizie civiche, armate dai notabili e dai possidenti meridionali, che più ebbero a soffrire della stagione di violenze e poi all'esercito italiano, generalmente indicato come 'piemontese'. Ma ormai il Regno d'Italia era succeduto al cessato Regno di Sardegna e il suo esercito arruolava in grande maggioranza Lombardi, Emiliani, Romagnoli, Toscani, Marchigiani, Umbri[chiarire: se la leva era obbligatoria arruolava tutti ]: infatti i due comandanti militari della repressioni erano Cialdini, modenese, ed Emilio Pallavicini, genovese. È chiaro che con piemontese si venne a indicare semplicemente un esponente del nuovo governo unitario [non chiaro il motivo per cui un modenese e un genovese fossero chiamati piemontesi]. L'azione delle bande, diffusa un po' in tutto il territorio continentale appartenuto all'ex-Regno delle Due Sicilie, è stata definita, a seconda del punto di vista: brigantaggio secondo la storiografia prevalente, rivolta come resistenza all'annessione al Regno sabaudo secondo la storiografia revisionista meridionalista. All'estremo sud continua a resistere, e lo farà sino alla primavera del 1861, la cittadella di Messina (che, già nel luglio 1860 aveva smesso di combattere, pattuendo di liberare la città e di non ostacolare Garibaldi nel passare lo stretto) e solo il 20 marzo 1861, tre giorni dopo la proclamazione dell'Unità d'Italia, si arrese la guarnigione della cittadella di Civitella del Tronto, al confine tra Abruzzo e Marche. A seguito della partenza dei Borbone di Napoli, dopo la sconfitta subita nella battaglia del Volturno e dell'assedio di Gaeta, il partito legittimista prese ad organizzarsi per tentare di cacciare l'invasore (supportati dai Borbone di Napoli, esuli a Roma, un poco dai Borbone di Spagna, dalla nobiltà legittimista e da una parte del clero). Nelle formazioni irregolari, che la popolazione locale denominava masse, affluirono migliaia di uomini: ex soldati dell'esercito sconfitto e disciolto, coscritti che rifiutavano di servire sotto la bandiera italiana, popolazione rurale, banditi di professione e briganti stagionali, che si dedicavano già alle grassazioni nei periodi nei quali non potevano trovare impiego in agricoltura. Si registravano sollevazioni diffuse, seguite dal rovesciamento dei comitati insurrezionali, sostituiti con municipalità legittimiste. A Napoli, l'ex-capitale travagliata da una grave crisi economica, agiva la propaganda del comitato borbonico della città, che riuscì, perfino, a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia. Nel mese di aprile venne sventata una cospirazione anti-unitaria e arrestate oltre seicento persone, fra cui 466 ufficiali e soldati del disciolto esercito borbonico. Nella primavera del 1861 la rivolta divampava ormai in tutto il Mezzogiorno continentale, assumendo spesso le forme di estese jacquerie contadine e, come tali, votate alla sconfitta nel loro impari confrontarsi con un moderno esercito calato in forze a combatterle. Si materializzava, tuttavia, il rischio concreto di un collegamento di tutte le formazioni della rivolta, dalla Calabria alle province contigue allo Stato Pontificio, dove risiedeva il re deposto, Francesco II, con un'azione centrata fra Irpinia e Lucania, ciò che condusse ad un incremento notevole sia delle forze impegnate, sia della ferocia con la quale la repressione delle insorgenze fu attuata.

    Esecuzioni e Propaganda

    « I militari solitamente così avari di immagini, rivelano un'improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio, negli anni successivi all'incontro di Teano. Ecco che d'un tratto l'impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all'obiettivo, organizzano messe in scena in cui gli ancora vivi recitano la parte del brigante. Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione. »
    ( Giulio Bollati, L'Italiano, Einaudi, Torino, 1983, pp. 142-143.)

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    Settembre 1863, un bersagliere mostra il cadavere del "brigante" Nicola Napolitano dopo la fucilazione e le sevizie


    Le pubbliche esecuzioni e l'esibizione esemplare dei giustiziati (pratica piuttosto diffusa nel XIX secolo) furono largamente impiegate come monito e come strumento propagandistico al fine di rendere popolare la guerra condotta dal Regio Esercito per reprimere le rivolte nel meridione.

    La repressione di Cialdini - 1861

    Nel luglio 1861 venne inviato a Napoli il generale Enrico Cialdini, con poteri eccezionali per affrontare l'emergenza del brigantaggio. Egli seppe rafforzare il partito sabaudo, arruolando militi del disciolto esercito meridionale di Garibaldi e perseguendo il clero e i nobili legittimisti. In una seconda fase, comandò una dura repressione messa in atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro interi centri abitati: fucilazioni sommarie e incendi di villaggi erano frequenti, restano presenti nella memoria storica gli eccidi dei paesi Casalduni e Pontelandolfo nell'agosto 1861, messi a ferro e fuoco dai bersaglieri, per rappresaglia dopo il massacro di oltre 40 militari regolari perpretato da briganti con l'appoggio di elementi attivi della popolazione locale.

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    Fucilazione di Vincenzo Petruzziello. Montefalcione, 1861


    L'obiettivo strategico consisteva nel ristabilire le vie di comunicazioni e conservare il controllo dei centri abitati. Le forze a sua disposizione consistevano in circa ventiduemila uomini, presto passate a cinquantamila unità nel dicembre del 1861. I suoi metodi repressivi impressionarono perfino il governo di Torino e scandalizzarono la stampa estera, per cui Cialdini venne sospeso nel settembre di quello stesso anno e sostituito dal generale Alfonso La Marmora.
    Gli strumenti a disposizione della repressione venivano, nel frattempo, incrementati, con la moltiplicazione delle taglie e l'istituto delle deportazioni: questa era la forma di quei tempi del domicilio coatto. Il 15 agosto 1863 venne emanata la legge Pica, che prese il nome dal redattore della legge l'abruzzese Giuseppe Pica, una legge speciale adottata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, articoli che garantivano, rispettivamente, il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale connessa al divieto di costituire tribunali speciali. Tale legge colpiva non solo i presunti e veri briganti, ma affidava al giudizio dei tribunali militari anche i loro parenti e congiunti o semplici sospetti di collaborazione coi briganti.
    A cavallo degli anni 1862-66 le truppe dedicate alla repressione vennero aumentate sino a 105.000 soldati, circa i due quinti delle forze armate italiane del tempo. Il generale Emilio Pallavicini,che alla dura repressione preferiva favorire il "pentitismo" tra i briganti, giunse ad eliminare le grandi bande a cavallo con i loro migliori comandanti: furono sgominate le colonne militari di Crocco e quelle pugliesi comandate da Michele Caruso nella zona di Foggia e Pasquale Romano attivo nella zona di Bari, quest'ultimo nativo di Gioia del Colle, era un ex tenente dell'esercito borbonico ed era considerato un abile stratega: la sua morte in battaglia rappresentò la fine della guerriglia organizzata militarmente in Puglia.

    La continuazione sporadica della rivolta 1866-70

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    Michelina Di Cesare, brigantessa uccisa dalle truppe italiane nel 1868


    Con le sue azioni, il Pallavicini aveva raggiunto l'obiettivo strategico principale della lotta contro il brigantaggio, cancellando le premesse per una possibile sollevazione generale e militarmente coordinata dei guerriglieri delle province meridionali: l'insurrezione non era ancora terminata, come dimostrò pure la rivolta del sette e mezzo in una città importante quale Palermo, ma venne meno qualsiasi carattere di azione collettiva, si affievoliva l'appoggio popolare. La resistenza degenerò così, sempre più spesso, in mero banditismo.
    Nel 1867, infatti, Francesco II delle Due Sicilie sciolse il governo borbonico in esilio. Continuava l'azione di poche e isolate bande d'irriducibili ma, vista l'impossibilità di ottenere risultati politici e per non logorarsi in un'eterna guerra civile, la spinta insurrezionale volgeva gradualmente al termine.
    Alla fine del brigantaggio contribuì anche il cessare dell'appoggio da parte dello stato pontificio, che per i primi anni costituiva una terra di rifugio ed asilo a tutti quelli che sconfinavano nel suo territorio. Nel 1864 la rivista Civilta' cattolica scriveva: "una delle piaghe piu cancrenose del preteso regno d'Italia e' il cosiddetto brigantaggio che da quattro anni infierisce nelle province meridionali", e dopo aver descritto e denunciato le azioni repressive del governo e l'impoverimento delle popolazioni causato dall'incremento dei prezzi e concludeva "che la cagione del brigantaggio e' politica, cioè l'odio al nuovo Governo".
    Nel 1867 la stessa rivista riportava un editto del 17 marzo 1867 del monsignor Luigi Pericoli, Delegato apostolico, emanato allo scopo di estirpare il brigantaggio dalle province di Frosinone e Velletri. Il contenuto dell'editto era preceduto dalla premessa che "tra le miserande conseguenze dell'usurpazione violenta del reame di di Napoli, si ha purtroppo da deplorare già da sette anni, e produsse già troppe rovine, quella del brigantaggio, che imperversa sulle frontiere delle province meridionali dello stato Pontificio, dove si annido' fra le giogaie de' monti e le selve inestricabili, per quinci piombare, quando dall'uno o dall'altra parte dei due stati confinanti, a compiere le più esecrabili ribalderie". Tra le varie norme introdotte l'editto considerava "conventicola" (vietata) anche la riunione di due soli briganti armati, taglie variabili da 2500 a 6000 lire per la consegna o uccisione di briganti e premi in denaro per briganti che consegnino alla giustizia loro compagni (sia vivi che morti), 10 - 15 anni di galera per chi ostacolasse la lotta al brigantaggio, possibile allontanamento dalla provincia di dimora dei familiari di briganti, divieto di muoversi in campagna portando con sé un eccesso di viveri e di indumenti, divieto di assumere come pastori o custodi per il bestiame di parenti di briganti, la chiusura di osterie, case di campagna e distruzione di capanne che potessero servire come rifugio ai briganti. Infine l'articolo della rivista riporta l'accordo verbale, che "potrebbe riuscire salutare ed efficace", stabilitosi fra il comandante delle truppe pontificie e quello delle truppe di Vittorio Emanuele II che permise alle truppe di uno stato di sconfinare nell'altro durante l'inseguimento di briganti in fuga. L'accordo, è noto come "Convenzione di Cassino", dal nome del paese in cui il 24 febbraio 1867 questo venne sancito dall'incontro fra il Conte Leopoldo Lauri Maggiore Comandante la 2a suddivisione della gendarmeria della provincia di Frosinone e Lodovico Fontana Maggior Generale Comandante la 1a zona militare di Cassino; nella sostanza l'accordo di collaborazione sullo sconfinamento delle truppe riprendeva quello stipulato il 4 luglio 1816 tra il governo papale e quello borbonico, che era stato prontamente ripristinato il 19 luglio 1918 dopo la caduta di Murat.
    Nel 1869 furono catturati i guerriglieri delle ultime grandi bande con cavalleria e a gennaio 1870 il governo italiano soppresse le zone militari nelle province meridionali, sancendo così la fine ufficiale del brigantaggio.
    Sempre nel 1870, Civiltà Cattolica pubblicava un articolo intitolato Il brigantaggio distrutto negli stati pontifici, in cui affermava che negli Stati del Papa il brigantaggio è già da più mesi del tutto estinto: ovechè negli Stati occupati da Vittorio Emmanuele seguita ad inferocire, lo stesso articolo, non firmato, ma attribuibile a P. Piccirillo direttore della rivista, forniva alcune cifre sulla lotta al brigantaggio negli stati pontifici attuata dal novembre 1865, anno in cui la responsabilità dell'ordine pubblico in quegli stati passo' dalle truppe francesi a quelle pontificie, al novembre 1869: 42 uccisi e 23 feriti nelle milizie papaline, 447 briganti catturati, di cui 240 indigeni delle province papaline, 48 briganti uccisi in combattimento "oltre i non pochi i quali, mortalmente feriti al lembo della frontiera e trafugati nottetempo, sono iti a spirare nel territorio assoggettato al regno d'Italia", 17 fucilati alle spalle, 54 condannati alla galera perpetua e 409 persone arrestate per complicità'.

    Le condizioni economiche e sociali

    « Il brigantaggio diventa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro secolari ingiustizie, congiunta ad altri mali che la infausta signorìa dei Borboni creò e ha lasciati nelle province napoletane: l'ignoranza, la superstizione e segnatamente, la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia. »
    (Giuseppe Massari)

    Brigantaggio in Basilicata

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    Carmine Crocco, emblema del brigantaggio in Basilicata

    « E intorno a noi il timore e la complicità di un popolo. Quel popolo che disprezzato da regi funzionari ed infidi piemontesi sentiva forte sulla pelle che a noi era negato ogni diritto, anche la dignità di uomini. E chi poteva vendicarli se non noi, accomunati dallo stesso destino? Cafoni anche noi, non più disposti a chinare il capo. Calpestati, come l'erba dagli zoccoli dei cavalli, calpestati ci vendicammo. Molti, molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni. Le loro rivoluzioni. Ma libertà non è cambiare padrone. Non è parola vana ed astratta. È dire senza timore, È MIO, e sentire forte il possesso di qualcosa, a cominciare dall'anima. È vivere di ciò che si ama. Vento forte ed impetuoso, in ogni generazione rinasce. Così è stato, e così sempre sarà... »
    (Carmine Crocco)


    La guerra civile, perché questi sono i caratteri che drammaticamente assunse quella rivolta, durò oltre cinque anni ed interessò tutta la Basilicata e le regioni limitrofe. L'alveo delle forze dei briganti divenne il Vulture ed il suo capo più rappresentativo fu Carmine "Donatelli" Crocco di Rionero in Vulture.
    Scappato dal carcere perché reo d'aver ucciso un signorotto che picchiò sua sorella, Crocco aveva partecipato ai moti unitari del '60 ma non avendo ottenuto l'amnistia fu arrestato e, una volta scarcerato, si unì all'esercito borbonico di Francesco II, lo stesso esercito contro cui combatté sotto Garibaldi. Crocco riuscì ad aggregare un esercito di oltre duemila uomini, la maggior parte dei quali contadini disillusi e minacciati dalle ordinanze del Governo pro-dittatoriale che prevedevano la pena di morte per chi partecipava ai moti di occupazione e rivendicazione delle terre. Le ostilità si aprirono l'8 aprile del 1861 con l'assalto a Ripacandida, seguito da quello di Venosa, dove trovò la morte Francesco Nitti, nonno di Francesco Saverio, futuro presidente del consiglio. L'occupazione si diffuse nel Vulture e talvolta i briganti venivano accolti come liberatori dalle popolazioni affrante e sopraffatte dalla miseria.
    Nell'ottobre del 1861, dopo l'assalto a Ruvo del Monte ed il violento scontro accaduto in agosto con i reparti dei Bersaglieri fra Avigliano e Calitri, ai briganti di Crocco e Ninco Nanco si affiancò Josè Borjes, il generale catalano spedito alla ventura nel tentativo di rinfocolare la reazione borbonica nel Mezzogiorno. Ma la sua fu un'impresa inutile e disperata, come ben si intuisce dalle note del suo diario, poiché seppure cercò per diversi mesi di guidare la rivolta al fianco di Crocco, dovette prendere atto della sostanziale indifferenza dei briganti agli astratti programmi politici di restaurazione borbonica. Dopo aver fallito il tentativo di occupare Potenza nel novembre del 1861, Borjes fu disarmato ed allontanato da Crocco, morendo poi fucilato dai bersaglieri presso Tagliacozzo l'8 dicembre dello stesso anno.
    Nella primavera successiva, trascorso l'inverno negli impenetrabili rifugi del Vulture, i briganti tornarono all'attacco e nel 1862 la lotta si fece agguerritissima al punto che in agosto il governo proclamò lo stato d'assedio e, successivamente, inviò sul posto il reggimento Ussari di Piacenza. Proprio in quel periodo, tramite la mediazione di autorevoli esponenti della borghesia locale si era giunti ad un accordo con Crocco ed altri cinquecento briganti, convinti ad abbandonare il campo con promessa di rifugio sicuro su un'isola. Questa ipotesi venne scartata aprioristicamente dal governo che confermava invece la linea dura, accusando anche di complicità coloro che avevano intentato la trattativa e, ignorando qualsiasi forma di mediazione, approntò la legge Pica con la quale si istituivano i tribunali militari e si autorizzavano fucilazioni immediate. L'opposizione alla Camera fu serrata da parte di tutta quella parte democratica del governo che aveva dato credito alle conclusioni della Commissione Parlamentare d'Inchiesta, inviata in Basilicata per cercare una soluzione al problema, e che aveva terminato la sua esposizione dichiarando che la ribellione dei briganti era in fondo "la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie". Nonostante l'opposizione del Massari e del De Sanctis, la legge Pica venne approvata ottenendo il doppio risultato di affermare l'egemonia delle forze conservatrici rispetto a quelle democratiche e di accrescere la violenza dei briganti, contro i quali il governo dovette impegnare complessivamente 120.000 soldati in una guerra costosissima per il paese, sul piano sia economico che morale. Il comando delle truppe venne affidato al generale Emilio Pallavicini, lo stesso che aveva fermato Garibaldi sull'Aspromonte, mentre il Prefetto di Potenza Veglio completava la linea telegrafica di collegamento tra il capoluogo e Tricarico, Matera, Melfi e Lagonegro.

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    Alcuni briganti lucani: Caruso, Cafo, Lamacchia e Tinna


    Il 13 marzo del 1864, presso Avigliano, veniva localizzato e circondato da Carabinieri e Guardia Nazionale Italiana il comandante dei briganti Ninco Nanco. Prima ancora di poter essere tratto in arresto, fu colpito a morte a tradimento da un colpo d'arma da fuoco esploso dal caporale della G.N. Nicola Coviello, probabilmente per motivi di risentimento personale o politici. A causa della defezione di Giuseppe Caruso, inoltre, il Pallavicini riuscì a sorprendere la banda di Crocco sull'Ofanto, il 25 luglio. Ciò nonostante Crocco riuscì a fuggire con undici dei suoi e a raggiungere incolume i territori dello Stato pontificio credendosi in salvo; ma così non fu, il clima politico era cambiato e proprio "quel Gran Pio IX", come egli stesso testimoniò poi, dopo la cattura avvenuta a Veroli per mano delle truppe pontificie, lo fece rinchiudere nelle carceri nuove di Roma. Così terminavano gli anni più accesi della guerriglia brigantesca e Carmine Crocco, condannato a morte a Potenza l'11 settembre del 1872, riuscì a scontare il carcere a vita nel bagno penale di Portoferraio dove divenne uomo di lettere e dettò le sue memorie.
    Anche nella provincia di Matera il fenomeno fu di non minore eclatanza ed ebbe come episodio precursore l'uccisione di un latifondista, il Conte Gattini, avvenuta l'8 agosto 1860 a Matera. I contadini materani infatti si sollevarono contro i proprietari terrieri a causa delle lentezze nella ripartizione delle terre demaniali ai privati, ed alla vigilia dell'Unità cominciarono a essere aizzati da quella parte della nobiltà, reazionaria e legittimista, che mal sopportava la venuta del nuovo regime e che incalzata dalla storia andava promettendo redistribuzioni di terre in caso di vittoria. Tra le varie bande esistenti nel materano le più importanti erano quella di Rocco Chirichigno, detto Coppolone, di Montescaglioso, quella di Vincenzo Mastronardi, detto Staccone, di Ferrandina, quella di Eustachio Fasano ed Eustachio Chita detto Chitaridd a Matera. Quest'ultimo viene considerato l'ultimo brigante in quanto anche dopo la sconfitta del brigantaggio post-unitario continuò a operare in maniera isolata fino alla sua uccisione avvenuta nel 1896.

    Brigantaggio in Calabria

    « Finora avemmo i briganti ora abbiamo il brigantaggio, e tra l'una e l'altra parola corre grande divario.Vi hanno briganti quando il popolo non li ajuta,quando si ruba per vivere e morire con la pancia piena; e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo,allorquando questo lo ajuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni.Ora noi siamo nella condizione del brigantaggio. »
    (Vincenzo Padula)


    In Calabria, diversamente dalle altre province meridionali, il brigantaggio postunitario non seguì la corrente politica finalizzata a restaurare la spodestata monarchia Borbonica sul trono di Napoli. Pochissime, infatti, furono le bande legittimiste, quelle di Ferdinando Mittica e di Luigi Muraca ne sono un raro esempio. In prevalenza le bande calabresi preferirono restare estranee ai grandi avvenimenti del brigantaggio politico lucano e pugliese, poiché il malcontento che esplose in Calabria era dovuto essenzialmente alla mancata risoluzione della questione agraria. Le province in rivolta furono quelle della Calabria Citra (Cosenza) e la parte catanzarese della Calabria Ultra mentre il fenomeno era del tutto inesistente in quel di Reggio Calabria. Dopo l'annessione delle province meridionali al Regno di Sardegna (Plebiscito del 21-22 ottobre 1860) un generale malessere si diffuse in tutta la Calabria, allorquando le promesse fatte ai contadini non vennero mantenute.
    Con l'Editto di Rogliano (31 agosto 1860) Garibaldi aveva concesso alle popolazioni contadine del circondario di Cosenza gli usi gratuiti del pascolo e della semina sui terreni del demanio statale. Il 5 settembre 1860 il nuovo governo liberale della Calabria Citra, con a capo Donato Morelli,apportò importanti modifiche all'Editto favorendo di fatto i vecchi proprietari terrieri, ciò scatenò la reazione popolare e la nascita del movimento contadino che tra il gennaio e il luglio 1861 portò all'occupazione dei fondi demaniali da parte della popolazione delle campagne cosentine e catanzaresi. Il movimento venne stroncato sul nascere con l'intervento della forza pubblica che estromise con violenza gli occupanti dai fondi. Con la proclamazione del Regno d'Italia (17 marzo 1861) e la conseguente "piemontesizzazione " del territorio la situazione peggiorò ulteriormente. Lo smantellamento del Polo siderurgico di Mongiana (VV) contribui' al fenomeno della disoccupazione. Tutte queste cause portarono, in Calabria, all'ingrossamento delle file brigantesche. Nelle bande dedite al brigantaggio affluirono quindi: contadini senza terra, braccianti,ex soldati borbonici ed ex garibaldini, renitenti alla Leva e delinquenti comuni, ma anche preti, poveri indebitati e donne. Il brigante più famoso di tutti fu Pietro Monaco, già ex soldato borbonico ed ex garibaldino, che aveva la sua base operativa tra i boschi della Sila Grande, mentre nella Sila Greca dominava l'imprendibile Domenico Straface alias Palma, già brigante ai tempi del Borbone. Sul versante catanzarese c'erano le bande di Pietro Bianco e di Pietro Corea a farla da padrone. Tra le donne la più famosa fu Maria Oliverio, moglie di Monaco.

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    La brigantessa Maria Oliverio alla morte del marito, Pietro Monaco, prese il comando della banda.Catturata nel 1864, fu l'unica donna ad essere condannata a morte. La pena venne, poi, commutata in ergastolo


    Numerose le bande minori: Ferrigno, Rosacozza, Franzese, Jannuzzi, Bellusci, Pinnolo, Zagarese, Sapia, Scalise, Acri, Vulcanis, Malerba, Romaniello, Faccione.
    La "guerra" di Monaco e compagni fu una "lotta contadina" contro baroni e galantuomini, che si erano schierati per i loro interessi con i nuovi governanti. I briganti della Sila combattevano quindi per se stessi, ed erano "costretti" a far la guerra contro i soldati italiani sia per legittima difesa e sia perché l'Esercito rappresentava un governo che si era apertamente schierato con i ricchi possidenti e contro pastori e contadini. Obiettivo delle bande era l'invasione delle proprietà terriere e la depredazione delle stesse, spesso seguita dall'incendio di campi e palazzi e dall'uccisione dei capi di bestiame. Non mancavano però gli omicidi, i sequestri di persona, gli assalti alle diligenze; il bottino veniva poi spartito tra la banda e il popolo affamato.
    Il brigantaggio calabrese si differenziò da quello lucano perché seguì essenzialmente una corrente di tipo sociale e non politica, anche se entrambe le due forme nascevano dalla voglia di riscatto del mondo contadino nei confronti del mondo dei "signori".
    La testa del brigante Domenico Straface alias Palma, messa "sotto spirito" come dettava l'usanza piemontese dell'epoca.

    Esito e conseguenze

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    La testa del brigante Domenico Straface alias Palma, messa "sotto spirito" come dettava l'usanza piemontese dell'epoca


    Secondo le stime di alcuni giornali stranieri che si affidavano alle informazioni ufficiali del nuovo Regno d'Italia, in un solo anno, dal settembre del 1860 all'agosto del 1861, vi furono nell'ex Regno delle Due Sicilie:
    • 8.964 fucilati,
    • 10.604 feriti,
    • 6.112 prigionieri,
    • 64 sacerdoti uccisi,
    • 22 frati uccisi,
    • 60 ragazzi uccisi,
    • 50 donne uccise,
    • 13.529 arrestati,
    • 918 case incendiate,
    • 6 paesi dati a fuoco,
    • 3.000 famiglie perquisite,
    • 12 chiese saccheggiate,
    • 1.428 comuni sollevati;

    Le cifre sulla durissima repressione che il governo di Torino attuò nella lotta al brigantaggio meridionale, sono in evidente discordanza tra loro. Basta passare da un testo all'altro di storia che i numeri cambiano notevolmente, crescendo o decrescendo, a secondo delle fonti di origine. Solo sulle forze in campo dell'esercito regolare piemontese ci si riesce a mettere tutti d'accordo: dagli iniziali 15.000 soldati stanziati alla fine del 1860 ai 22.000 d'inizio '61, portati a 50.000 nel dicembre dello stesso anno. Dai 105.000 del '62 all'aumento fino a 120.000 unità dal 1863 fino al 1865. All'elenco delle vittime della repressione sabauda, riportato sopra, possiamo aggiungere quanto riferito da Giuseppe Massari: dal 1861 alla primavera del 1863 l'esercito piemontese perse 26 ufficiali e 367 soldati mentre tra i briganti si ebbero 2.413 morti in combattimento, 1.038 fucilati e 2.768 arrestati. Da una dichiarazione fatta da Alfonso La Marmora alla commissione d'inchiesta sul brigantaggio (della quale lo stesso Massari faceva parte) e riferita allo stesso periodo di tempo, notiamo che il numero dei briganti uccisi in combattimento o fucilati sale a 7.151. Mentre il giornale francese " De Naples a Palerme" (1863-64) parla di 10.000 napoletani* fucilati o uccisi in combattimento, più di 80.000 arrestati, 17.000 emigrati a Roma e circa 30.000 nel resto d'Europa. Il dato sugli arrestati è lo stesso quando il ministro della guerra, Della Rovere, dichiara al Senato che 80.000 uomini dell'ex armata borbonica, arrestati, avevano rifiutato di servire sotto la bandiera sabauda..Secondo la statistica di fine anno fatta dal governo piemontese e riferita al solo 1861, i fucilati erano stati 733, i morti in combattimento 1.093 e gli arrestati 4.096. Dice il Massari, concludendo la sua inchiesta sul brigantaggio, nel 1863:" Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. Siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici".
    I problemi che avevano originato il brigantaggio e che, in gran parte, risalivano alla responsabilità del governo borbonico, restavano però irrisolti e, in seguito, per molti abitanti del Sud l'unica speranza di sopravvivenza fu legata all'emigrazione. Lo squilibrio strutturale tra nord e sud d'Italia verrà affrontato in modo più organico dalla classe dirigente italiana e prese avvio il dibattito sulla questione meridionale, nei termini sociali ed economici in cui la conosciamo ancora oggi.

    Il dibattito storiografico

    « Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. »
    (Giuseppe Garibaldi in una lettera ad Adelaide Cairoli, 1868)

    « Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti. »
    (Antonio Gramsci in L'Ordine Nuovo, 1920)


    Diversi storici hanno proposto di rivedere i capitoli che riguardano l'insegnamento di alcune pagine del passato italiano. L'opera storiografica offre testi di visioni evidentemente contrapposte con agli opposti estremi la versione governativa dell'epoca. Molti storici hanno sostenuto le varie tesi omettendo o all'opposto esagerando ossia strumentalizzando il numero delle vittime che non è valutabile poiché non documentabile quindi esistono solo stime.

    Gli studiosi nei loro trattati cercano di rispondere alle seguenti domande:
    • quanti furono, almeno approssimativamente, i morti tra insorti e loro fiancheggiatori nonché tra soldati italiani e poliziotti?
    • i guerriglieri meridionali, prevalentemente disperati miserabili di tutte le categorie, pretendevano solo un aiuto finanziario dal nuovo Stato italiano o ne volevano sovvertire il sistema forse con una repubblica, constatando che i reazionari borbonici erano una netta minoranza?
    • i combattenti meridionali progettavano di provocare una rivolta pure dei nullatenenti settentrionali ai quali poi unirsi per un cambiamento radicale del sistema politico-sociale nazionale?
    • la notevole emigrazione all'estero fu una diretta conseguenza del conflitto o ebbe ragioni totalmente differenti inquadrabili nella questione meridionale?

    I ricercatori di storia continuano a scrivere libri cercando di chiarire le questioni ma molte perplessità di vario tipo permangono.
    In parte è in corso una rivendicazione del ruolo svolto dal sud come finanziatore dello sviluppo industriale del Regno d'Italia; in altra parte viene accentuato un discorso di storia economica e monetaria come elemento chiave per capire gli squilibri nord-sud. È in questo periodo che il sistema bancario si struttura in modo simile a oggi: un meridione con poche tasse e alta raccolta di risparmi che non vengono investiti nel territorio, ma finanziano le industrie del nord Italia.
    La tassazione imposta dal Regno d'Italia, la stessa del nord estesa al nuovo regno, ulteriori aggravi come la tassa sul grano ma soprattutto le politiche protezioniste adottate per favorire lo sviluppo dell'economia industriale del Settentrione colpirono duramente il Mezzogiorno, causando la massiccia emigrazione che si verificò dopo l'unità d'Italia.
    L'afflusso di risparmi dagli emigranti (compresi moltissimi Veneti, Romagnoli, Liguri e Piemontesi) alle famiglie fu un importante ammontare di riserve di valuta estera (che valeva molto rispetto alla moneta italiana dell'epoca) che si sommava alle riserve auree (443 milioni di Lire-oro, corrispondenti ad oltre il 60% del patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme) integrate (dopo il loro fallimento) con l'acquisizione nella futura Banca d'Italia delle banche del sud. Taluni critici e storici interpretano il brigantaggio come un sintomo del processo di trasferimento di ricchezza dal Meridione verso il Nord.

    Genesi delle mafie

    Nella seconda metà dell'Ottocento, emersero federazioni di famiglie organizzate su base regionale, che sarebbero poi diventate: Cosa Nostra in Sicilia, la Camorra in Campania, e la 'Ndrangheta in Calabria. La presenza di tali organizzazioni criminali incide fortemente in modo negativo sullo sviluppo socio-economico del territorio meridionale.

    Inizio dell'emigrazione meridionale

    La grande emigrazione meridionale ha inizio solo alcuni decenni dopo l'unità d'Italia, laddove nella prima metà del XIX secolo aveva già riguardato diverse zone del Nord, in particolare del Piemonte, del Comacchio e del Veneto. Le ragioni storiche della prima emigrazione meridionale della seconda metà del XIX secolo sono da ritrovare per letteratura diffusa sia per la crisi delle campagne e del grano, sia per la situazione di impoverimento economico che colpisce il Sud all'indomani dell'unità, quando gli investimenti industriali si concentrano nel Nord, nonché per altri fattori.
    L'emigrazione meridionale è fenomeno che segue diverse ondate storiche di partenze e differenti mete geografiche nei diversi periodi. È fenomeno che non si arresta nelle statistiche nemmeno nell'attualità quando l'emigrazione si caratterizza per un notevole flusso di spostamento geografico di laureati e professionisti meridionali, qualificandosi come emigrazione intellettuale, al di là dei normali flussi di mobilità della forza lavoro, che impoverisce ulteriormente il substrato sociale e culturale delle regioni meridionali.

    L'inchiesta Sonnino-Franchetti e la "scoperta" della questione meridionale

    Nel 1877 i professori universitari ed esponenti della Destra storica Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino pubblicarono la loro inchiesta in Sicilia con cui per la prima volta richiamarono l'attenzione pubblica sulla durezza delle condizioni di vita in alcune regioni del Sud.

    L'avventura coloniale e la guerra commerciale con la Francia

    L'emergere dell'Italia come uno stato unitario aveva indotto a perseguire una politica estera aggressiva sullo scacchiere europeo piuttosto che a concentrarsi nel risolvere le contraddizioni interne. Le conseguenze della terza guerra di indipendenza, gli attriti per l'annessione dello Stato Pontificio e interessi contrastanti in Tunisia portarono l'Italia da allontanarsi dal tradizionale alleato francese e ad avvicinarsi a Germania ed Austria nella Triplice Alleanza.
    Già tra il 1877 e il 1887 (Governi Depretis) l'Italia aveva adottato nuove leggi di matrice protezionistica sulle tariffe doganali, per proteggere la propria debole industria.
    Queste leggi andavano a svantaggio delle esportazioni agricole del Sud , avvantaggiando la produzione industriale concentrata al Nord e creando le premesse per corrotte commistioni tra politica e economia. Secondo Giustino Fortunato con questi provvedimenti si determinava il definitivo crollo degli interessi meridionali di fronte a quelli dell'Italia settentrionale.

    La Prima guerra mondiale

    La Prima guerra mondiale vide l'Italia combattere contro l'Austria-Ungheria. Sebbene il conflitto avesse prosciugato le risorse di tutto il paese, il meridione ne risentì maggiormente il peso. Il relativo sviluppo del nord, fondato sull'industria, venne favorito dalle commesse belliche, mentre al sud, che l'Unità ebbe condannato ad un'esclusiva vocazione agricola, per via dell'abbandono dei piani industriali iniziati durante l'amministrazione borbonica, il richiamo alle armi dei giovani lasciò nell'incuria i campi, privando le loro famiglie di ogni sostentamento. A guerra finita, poi, fu la borghesia imprenditoriale del nord a profittare dell'allargamento dei mercati e delle riparazioni di guerra.

    Il ventennio fascista

    Il fascismo si presentò nel Mezzogiorno come una forza in grado di realizzare obiettivi ambiziosi in tempi brevi e che gli potessero assicurare una forte visibilità. Lo Stato fascista era infatti interessato ad allargare il proprio consenso mediante una crescita economica che sostenesse la sua politica espansionista. A tal fine promosse una serie di opere pubbliche attraverso vari organismi quali l'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) e l'IMI (Istituto Mobiliare Italiano), per dotare di infrastrutture i territori più depressi del Meridione. Vennero migliorati due porti (Napoli e Taranto), costruite alcune strade, ferrovie e canali, intrapresa la costruzione di un grande acquedotto (quello del Tavoliere Pugliese) e, soprattutto, ideato un ambizioso piano di bonifica integrale. Tuttavia si trattò di investimenti che soddisfacevano solo in minima parte le esigenze locali, con una ricaduta modesta sull'occupazione e distribuiti secondo criteri volti a produrre o consolidare il consenso verso il regime da parte delle popolazioni interessate e, nel contempo, a non ledere gli interessi di quei ceti, latifondisti e piccolo-borghesi, che costituivano lo zoccolo duro del fascismo nel Meridione. Ciò fu particolarmente evidente nell'attuazione dell'imponente piano di bonifica, dove non si riuscirono ad armonizzare gli interessi contrastanti dei contadini, che richiedevano un trasferimento delle terre bonificate a loro favore, e dei vecchi proprietari terrieri, timorosi di venire espropriati. Si cercò invano di limitare l'influenza di questi ultimi e così «...la bonifica si arrestò nel Mezzogiorno alla fase delle opere pubbliche, mentre tutti i fermenti che la miseria e i permanenti squilibri suscitavano, furono incanalati, in quegli anni, verso il mito dell'Impero.»
    Anche le politiche messe in atto in epoca fascista per incrementare la produttività nel settore primario non furono coronate da successo: in particolare la politica agraria voluta da Mussolini danneggiò profondamente alcune aree del Mezzogiorno. La produzione si concentrò infatti soprattutto sul grano (battaglia del grano) a scapito di colture più specializzate e redditizie che erano diffuse nelle aree più fertili e sviluppate Meridione. Per quanto riguarda l'industria, questa visse durante il "ventennio nero" un lungo periodo di stagnazione nel Sud, rilevabile anche sotto il profilo occupazionale. Gli addetti al settore secondario nel Mezzogiorno costituivano infatti, nel 1911, il 20% sul totale nazionale e, quasi trent'anni più tardi, tale percentuale non aveva subito mutamenti di rilievo. Nel 1938 i lavoratori dell'industria erano scesi infatti al 17,1%, ma, tenendo conto del minor peso demografico del Meridione e delle Isole rispetto alle altre due macroaree economiche del Paese a quella data, il rapporto fra costoro e quelli operanti nel resto d'Italia era rimasto praticamente invariato (nello stesso arco temporale la popolazione del Mezzogiorno era scesa dal 38% circa al 35,5% circa su quella totale dello Stato).
    Sul finire degli anni trenta il fascismo diede nuovo impulso al suo impegno economico nel Meridione e in Sicilia, ma si trattò di un'iniziativa tesa ad accrescere gli scarsi consensi che il Regime godeva nel Mezzogiorno e a rendere più popolare, nel Sud, la guerra mondiale che di lì a poco avrebbe travolto l'Italia.
    L'Italia fascista, quale Stato totalitario, fece ricorso a strumenti anche al di fuori dello Stato di diritto (tortura, leggi speciali) per combattere ogni forma di malavita organizzata nel Sud. Celebre fu la nomina di Cesare Mori, che venne poi chiamato "Prefetto di ferro" per i suoi duri metodi, quale prefetto di Palermo con poteri straordinari su tutta l'isola. Nonostante gli ottimi risultati conseguiti, la mafia non fu del tutto sradicata, tanto che si alleò con gli anglo-americani durante la Seconda guerra mondiale ed ebbe contatti con alcuni esponenti del fascismo stesso (vedasi Alfredo Cucco e il Caso Tresca).

    Seconda guerra mondiale

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    1943: gruppo di uomini e donne fotografati in un paese del sud Italia


    La Seconda guerra mondiale, esattamente come la Prima, sfavorì più il sud che il nord. Ma questa volta le disparità che ne risultarono, più che economiche, furono di carattere politico. Nel 1943 gli alleati stavano preparando lo sbarco in Sicilia per invadere l'Italia, e trovarono un'alleata nella mafia tramite le famiglie operanti negli Stati Uniti, che si offrì di fornire informazioni strategiche e legittimazione morale agli invasori in cambio del controllo civile del sud Italia. Il comando alleato accettò, e così le zone via via conquistate da questi passarono sotto il controllo dei vari clan mafiosi, che approfittarono della fase per consolidare, anche militarmente, il loro potere. Al crollo dell'apparato repressivo statale conseguì il ritorno della questione del banditismo, soprattutto in Sicilia, dove certi suoi esponenti si collegarono ai movimenti politici indipendentisti, che chiedevano l'indipendenza dell'isola o l'annessione come 49º stato agli Stati Uniti.
    Il governo provvisorio decise di non reprimere il movimento, che peraltro non aveva contenuti o rivendicazioni sociali, ma di corromperlo. Grosse quote del piano Marshall furono dirottate verso le zone in fermento, e la protesta venne privata dell'interessamento attivo della popolazione. I capi banda vennero pagati per deporre le armi, e, attraverso manovre politiche complesse, si convinsero alcune delle bande rimaste, pagandole, a compiere attentati contro la popolazione civile, che finì per isolare i gruppi armati. Parallelamente si scatenò una campagna stampa denigratoria nei confronti degli insorti. Per finire la nuova costituzione repubblicana concesse una certa autonomia alla Sicilia, cosa che privò gli ultimi ribelli di ogni legittimazione politica. Le poche bande rimaste vennero individuate ed eliminate nell'indifferenza della popolazione. Come ottant'anni prima, però, la mafia aveva già preso le distanze dai gruppi armati, ritornando in clandestinità e confondendosi fra la popolazione. Parte integrante di questa strategia è la collaborazione della gente ordinaria, particolarmente attraverso l'omertà, ovvero il fatto di ostacolare la forza pubblica nascondendo o tacendo informazioni sensibili.

    La Prima Repubblica

    Dopo la guerra la mafia acquistò un enorme potere in alcune importanti regioni dell'Italia meridionale, prima in Sicilia e poi in Calabria e Campania.
    Della questione meridionale si discusse a lungo in Assemblea Costituente e fu previsto, proprio a sottolineare la dimensione nazionale e costituzionale del tema, nell'articolo 119 della Costituzione, che "Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali". Tale riferimento sarà poi abrogato con la legge di revisione costituzionale n. 3/2001.
    A varie riprese il governo italiano destinò fondi allo sviluppo del Mezzogiorno, creando pure un istituto finanziario chiamato Cassa del Mezzogiorno per gestirne i flussi. La mafia dal canto suo investì i propri proventi illeciti in attività legali. Ma tali movimenti finirono, rispettivamente, a dirottare denaro pubblico e a riciclare i proventi di crimini, e non a finanziare imprese produttive. Troppo spesso gli investimenti statali vennero utilizzati male, e troppo spesso servirono a creare stabilimenti industriali, da parte dei grandi gruppi pubblici e privati del nord, in aree mal servite dalle infrastrutture, con una sede dirigenziale situata spesso lontano dagli impianti di produzione, e che tuttavia approfittavano degli ingenti capitali pubblici ivi stanziati. Infatti molti gruppi industriali del nord furono incitati tramite sovvenzioni pubbliche a stabilirsi nel sud, ma tali scelte si rivelarono sotto certi aspetti antieconomiche, dato che molti di questi esperimenti industriali fallirono in breve tempo con il terminare delle sovvenzioni pubbliche. Le grandi aziende che aderivano a questi progetti e i partiti politici che li promuovevano, dal canto loro, approfittavano del contesto disagevole in cui operavano facendo ricorso a prassi clientelari nelle assunzioni, senza che venisse mai messa nessuna enfasi sulla produttività o sul valore aggiunto dalle attività imprenditoriali. Queste pratiche malsane, dette "assistenzialistiche", ebbero come conseguenza la profonda alterazione delle leggi di mercato e l'aborto di ogni possibile sviluppo economico delle aree più depresse del paese. I capitali privati italiani evitavano il Mezzogiorno se non incoraggiati con lo stanziamento di ingenti fondi pubblici, considerando che ogni investimento effettuato in chiave produttiva, non sovvenzionato dallo stato, fosse destinato alla perdita. Benché oggigiorno la situazione sia sensibilmente diversa, atteggiamenti clientelari perdurano ancora nella politica meridionale, e troppo spesso i grandi appalti pubblici del sud vengono affidati ai soliti grandi gruppi industriali.
    Per quanto riguarda lo sviluppo dell'economia privata del meridione bisogna sottolineare come negli anni del cosiddetto "boom economico", fino alla metà degli anni '70, ci fu nel sud una intensa e costante crescita economica, che riuscì finalmente (dopo quasi un secolo) a ribaltare le tendenze dell'economia meridionale e riavvicinarla ai livelli del nord. Questo cambio di tendenza si interruppe bruscamente nei primi anni '70, dopo lo shock petrolifero, e da quel momento in poi il dualismo tra nord e sud tornò a crescere. Negli ultimi anni tuttavia, a partire dal 2000, i dati raccolti ci dicono che lentamente l'economia meridionale sta riducendo nuovamente il divario.
    Quando il governo si ritrovò a prendere provvedimenti legislativi o a negoziare accordi internazionali in ambito economico, l'attenzione si diresse, ancora, alle industrie del nord. Per esempio, quando negli anni quaranta e cinquanta emigranti italiani, soprattutto meridionali, incominciarono a raggiungere massivamente le miniere carbonifere del Belgio, il governo italiano chiese e ottenne da quello belga una tonnellata di carbone all'anno per ogni lavoratore espatriato, questo approvvigionamento non beneficiò le regioni d'origine dei minatori emigrati, essendo destinato alle fabbriche prevalentemente ubicate nelle aree settentrionali della nazione.
    Negli anni sessanta e settanta le aree industrializzate vissero un periodo di sviluppo economico, incentrato sull'esportazione di prodotti finiti, chiamato miracolo “italiano”. Il fenomeno attirò manodopera dal Mezzogiorno, e interessò per alcuni decenni anche lo stesso Mezzogiorno, ma la disparità dei due livelli di tenore di vita diventò evidente e largamente discussa. In reazione, gli emigranti inviarono rimesse alle loro famiglie rimaste nel sud, e lo stato dedicò finalmente importanti risorse allo sviluppo dei servizi essenziali, ma queste risorse non erano in grado di essere reinvestite in circoli produttivi, e servirono solamente ad aumentare, anche se di poco, il tenore di vita delle famiglie degli emigranti meridionali.
    A partire dagli anni ottanta l'organo giudiziario cercò un altro compito, e si focalizzò sulla criminalità organizzata. Evoluzioni sociali come l'individualismo e la spettacolarizzazione della vita pubblica contribuirono a creare condizioni tali per cui il sistema di potere utilizzato dalla classe dirigente incominciò a rivelare delle crepe. Varie leggi rinforzarono la lotta contro la corruzione e la criminalità: una che confermava la separazione del potere giudiziario da quello esecutivo, un'altra che istituiva sconti di pena e altri vantaggi agli accusati che collaborano con le indagini in corso, ed infine una che individuava nell'appartenenza ad un'associazione mafiosa un reato più grave rispetto alla semplice associazione per delinquere. Tutto questo permise negli anni ottanta di arrivare ad ottenere dei primi progressi nella lotta antimafia.

    Situazione attuale

    In questo periodo viene intrapreso un parziale risanamento del debito pubblico accumulato dalle amministrazioni precedenti, impresa che si accompagna a riduzioni e razionalizzazioni della spesa pubblica.
    L'Unione Europea accompagna parzialmente questo processo finanziando progetti imprenditoriali a carattere sociale, ecologico o culturale, ma queste iniziative non sono di natura tale da creare meccanismi di autofinanziamento, e i vantaggi derivati sono molto ridotti. Al riguardo è importante ricordare che l'Abruzzo differentemente da tutte le altre regioni del meridione, è uscita dal c.d. (ed ormai passato) obiettivo 1.
    In termini assoluti la situazione economica del meridione è indubbiamente migliorata negli ultimi sessant'anni; in termini relativi, però, il divario con il nord è drasticamente aumentato a partire dagli anni '70 del '900[39]. Anche inglobato nell'Unione Europea, difficilmente il Mezzogiorno potrà conoscere un forte sviluppo economico in tempi brevi.
    Ancora oggi vari problemi strutturali ipotecano le sue possibilità di progresso economico: la carenza d'infrastrutture, la presenza di un sistema bancario poco attento alle esigenze del territorio (le vecchie grandi Banche del sud, a partire dagli anni '90, sono state via via inglobate nei grandi gruppi del nord, come ad esempio il Banco di Napoli), i ritardi di una pubblica amministrazione spesso pletorica, l'emigrazione di tanti giovani che a causa della limitata crescita economica non trovano un lavoro, e soprattutto l'infiltrazione della malavita organizzata nella vita politica ed economica del sud, fattore questo che rappresenta il principale freno alla crescita economica meridionale. Un recente dossier del CENSIS ha infatti stabilito che senza l'influenza della criminalità organizzata l'economia meridionale sarebbe capace in un paio di decenni di raggiungere quella del nord Italia.

    Riferimenti culturali

    Vari studiosi e uomini politici hanno affrontato la Questione meridionale, cercando le cause dell'arretratezza del sud.


    Ecco i più noti.
    • Giuseppe Massari (1821 - 1884) e Stefano Castagnola (1825 - 1891) furono due deputati italiani che diressero una commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio fra il 1862 ed il 1863. Sebbene parziale e puramente descrittivo, il loro lavoro espose bene come la miseria e l'invasione sabauda avessero un ruolo capitale nella nascita della rivolta.
    • Stefano Jacini senior (1827 - 1891), a lungo ministro dei lavori pubblici, si interessò alla necessità di costruire infrastrutture e creare una classe di piccoli proprietari terrieri.
    • Stefano Jacini junior (1886 - 1952), suo nipote, constatò due generazioni dopo che la situazione non era cambiata, e riprese le stesse posizioni.
    • Leopoldo Franchetti (1847 - 1917), Giorgio Sidney Sonnino (1847 - 1922) ed Enea Cavalieri (1848 - 1929) realizzarono nel 1876 una celebre e documentata inchiesta sulla Questione meridionale, nella quale mettevano in luce i nessi fra l'analfabetismo, il latifondo, la mancanza di una borghesia locale, la corruzione e la mafia, sottolineando la necessità di una riforma agraria.
    • Giustino Fortunato, uomo politico conservatore, effettuò vari studi in materia, e pubblicò nel 1879 il più conosciuto di essi, in cui esponeva gli svantaggi fisici e geografici del sud, i problemi legati alla proprietà della terra, e il ruolo della conquista nella nascita del brigantaggio. Era decisamente ostile ad ogni tipo di federalismo, e, sebbene difendesse la necessità di redistribuire la terra e di finanziare servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu ritenuto da alcuni interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava nei confronti dei meridionali di vincere con le proprie forze i condizionamenti economici e storici del Mezzogiorno. Si aspettava dal Nord la salvezza, ma col tempo si mostrò disilluso per l'incapacità delle classi dirigenti settentrionali (e più in generale della nuova Italia) di risolvere la questione meridionale.
    • Benedetto Croce (1866 - 1952), filosofo storicista, rivide in chiave storiografica le vicende del Mezzogiorno dall'Unità fino al Novecento, mettendo l'accento sull'imparzialità delle fonti. Il suo pensiero divergeva parzialmente da quello del suo amico Giustino Fortunato riguardo all'importanza da attribuire alle condizioni naturali in riferimento ai problemi del Mezzogiorno. Riteneva infatti fondamentali le vicende etico-politiche che avevano condotto a quella situazione. Entrambi ritenevano fondamentale la capacità delle classi politiche ed economiche, nazionali e locali, per affrontare e risolvere la questione. La sua Storia del Regno di Napoli, del 1923, rimane il punto di riferimento essenziale per la storiografia posteriore, sia per i discepoli che per i critici.
    • Gaetano Salvemini (1873 - 1957), storico e politico socialista concentrò le sue analisi sugli svantaggi che il sud aveva ereditato dalla storia, criticò aspramente la gestione centralizzata del paese, e indicò come necessaria l'alleanza degli operai del nord con i contadini del sud. Tuttavia lo sfruttamento sistematico del Mezzogiorno da parte del capitale settentrionale e l'adozione di una legislatura statale particolarmente penalizzante per il Sud era stata resa possibile, secondo Salvemini, dalla complicità dei grandi proprietari terrieri meridionali e dai loro alleati, i piccoli borghesi locali. Questi ultimi, volgari e oziosi, suscitavano il disprezzo di Salvemini, che invece nutriva un profondo rispetto nei confronti dei sobri, laboriosi e dignitosi contadini meridionali. Ancora nel 1952 Salvemini metteva in evidenza le gravi responsabilità che la piccola borghesia meridionale aveva avuto, e continuava ad avere, nel mancato sviluppo del Mezzogiorno, ma «...di questa responsabilità i borghesi meridionali amano rimanere ignoranti. Trovano comodo prendersela con i settentrionali. Ebbene, quella responsabilità noi meridionali dobbiamo metterla in luce, sempre. Bisogna impedire che i meridionali dimentichino se stessi per non far altro che sbraitare contro i settentrionali.».
    • Francesco Saverio Nitti (1868 - 1953), più volte ministro, si dedicò molto allo studio dell'economia meridionale. Ne analizzò il timido sviluppo industriale, l'emigrazione, ed esortò la creazione di un primo stato sociale. Dopo la Seconda guerra mondiale, propose anche un vasto programma di lavori pubblici, di irrigazione e di rimboschimento, ed affermò come altri prima di lui l'urgenza di una riforma agraria.
    • Antonio Gramsci (1891 - 1937), noto pensatore marxista, lesse il ritardo del sud attraverso il prisma della lotta di classe. Studiò i meccanismi in corso nelle rivolte contadine dalla fine dell'Ottocento fino agli anni venti, spiegò come la classe operaia fosse stata divisa dai braccianti agricoli attraverso misure protezionistiche prese sotto il fascismo, e come lo stato avesse artificialmente inventato una classe media nel sud attraverso l'impiego pubblico. Auspicava la maturazione politica dei contadini attraverso l'abbandono della rivolta fine a se stessa per assumere una posizione rivendicativa e propositiva, e sperava una svolta più radicale da parte dei proletari urbani che dovevano includere le campagne nelle loro lotte.
    • Guido Dorso (1892 - 1947) fu un intellettuale che rivendicò la dignità della cultura meridionale, denunciando i torti commessi dal nord ed in particolare dai partiti politici. Effettuò esaurienti studi sull'evoluzione dell'economia del Mezzogiorno dall'Unità fino agli anni trenta e difese la necessità dell'emergenza di una classe dirigente locale.
    • Rosario Romeo (1924 - 1987), storico e politico, si oppose alle tesi rivoluzionarie ed evidenziò le differenze esistenti, prima e dopo il Risorgimento, fra la Sicilia ed il resto del sud. Attribuì i problemi del Mezzogiorno a tratti culturali, caratterizzati dell'individualismo e lo scarso senso civico, piuttosto che a ragioni storiche o strutturali.
    • Paolo Sylos Labini (1920 - 2005) professore ed economista, riprese tesi che vedevano nell'assenza di sviluppo civile e culturale le origini del divario economico. Considerò la corruzione e la criminalità come endemiche della società meridionale, e vide l'assistenzialismo come principale ostacolo allo sviluppo.

    Storiografia del problema

    L'interpretazione della Questione meridionale ha vissuto profonde evoluzioni nel tempo. Originalmente il dibattito era fortemente influenzato dalla censura e propaganda della corona sabauda, preoccupata di legittimare la conquista, l'annessione e lo sfruttamento del sud. Tale censura ha impedito che pervenissero fino ad oggi documenti attendibili su molti aspetti, come il numero di vittime della repressione. Anche dopo la fine del regno i dati storiografici disponibili impedirono una corretta lettura degli eventi. Solo recentemente nuovi studi hanno messo in causa la visione classica della vicenda, e certi fatti, come lo stato economico del Regno delle Due Sicilie o il brigantaggio hanno preso un'altra dimensione. Oggigiorno tesi come l'inferiorità genetica delle popolazioni del sud Italia, una volta abbastanza consensuali, non sono più accettate accademicamente. Al contrario negli ultimi anni finalmente delle ricerche economiche ci aiutano a stabilire scientificamente (con l'ausilio di disparati indicatori e dati economici) esattamente la nascita della questione meridionale, cioè nella parte finale dell' '800, dopo l'Unità d'Italia.

    Si possono comunque distinguere tre approcci storiografici principali, che ricalcano in grosse linee dibattiti ideologici e politici più ampi:
    • La storiografia classica, così chiamata perché nata prima, tende a vedere l'arretratezza del Mezzogiorno come segno di un'evoluzione atipica o ritardata, dove altre condizioni avrebbero permesso alla regione di inserirsi con successo in una dinamica di crescita e di integrazione.
    • La storiografia moderna, così chiamata perché proposta a partire da Gramsci e Salvemini, vede il persistere della miseria come una componente essenziale del capitalismo, che è basato sulle dualità sfruttatore - sfruttato, sviluppo - sottosviluppo, anche su base geografica.
    • L'interpretazione deterministica, che vede nella demografia (attraverso tesi razziste) o nella geografia del sud le origini, spesso insormontabili, della povertà nella quale si trova il Meridione.
    • Molti letterati anche tra quelli già citati come Gramsci e Giustino Fortunato riscontrarono pubblicamente la presenza di una vera e propria questione meridionale ma affermarono, altrettanto pubblicamente anche se poco o per nulla diffuso, che essa era dovuta alla disparità di trattamento tra Italia del nord e Italia del Sud, quest'ultima sfruttata fino all'inverosimile tanto che buona parte dei suoi figli emigrarono lasciando la propria terra per cercare fortuna all'estero, e questa "questione meridionale" non è mai esistita prima dell'unità anzi l'ex Regno delle Due Sicilie era il regno più ricco e più industrializzato della penisola italiana prima dell'unità tanto che fu premiato all'esposizione universale di Parigi del 1856 come 3° paese al mondo per sviluppo industriale, dopo solo Francia e Inghilterra.

    Edited by Isabel - 1/10/2012, 11:29
     
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