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Memorie - Ferramonti di Tarsia (CS), il campo di concentramento più grande d'Italia

Il campo di concentramento in cui è cambiato il destino di duemila persone

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    Memorie - Ferramonti di Tarsia (CS), il campo di concentramento fascista in cui è cambiato il destino di duemila persone

    museodellamemoria

    di Anna Foti
    Esiste un luogo in Calabria in cui l’Umanità è sopravvissuta al delirio di onnipotenza, alla follia distruttiva imperante in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale; in cui il coraggio e la nobiltà di animo di uomini, ufficiali ma anche cittadini del luogo, hanno illuminato il cammino di uomini, donne e bambini che in altri campi di concentramento sarebbero stati brutalizzati ed uccisi. Qui la memoria è una ferita che può rimarginarsi, un cammino ancora in atto che si nutre di storie, di esistenze, di persone che recuperano in questo luogo, un frangente della loro vita inaspettatamente intriso di tepore e speranza mentre intorno dilagavano orrore e morte. Qui il destino di migliaia di persone è stato strappato alla violenza ed alla morte. Ma in molti hanno realizzato solo dopo cosa stesse accadendo negli altri lager in Europa, l’orrore della Shoah, mentre loro vivevano dentro il campo calabrese. Il cammino di memoria si nutre delle storie dei 2200 internati ( il campo ne avrebbe potuti ospitare fino a 2700) liberati dagli Alleati nel 1943 nel campo di Ferramonti, una volta vicino alla vecchia stazione ferroviaria della linea Cosenza - Sibari dove sostavano i convogli, nella valle del fiume Crati oggi accanto allo svincolo di Tarsia in provincia di Cosenza; il più grande campo di concentramento fascista (che sorse in Calabria rispetto ad altra località individuata in Basilicata), costruito dalla ditta Parrini di Roma. Entrò in funzione nel giugno del 1940 e fu il primo campo ad essere liberato, il 14 settembre 1943 e l’ultimo ad essere chiuso l’11 dicembre 1945. Furono internati ebrei, antifascisti ed oppositori politici comunisti non solo italiani ma anche greci e slavi, apolidi. Molti furono i profughi in fuga da altri campi di concentramento in Germania ed in Polonia che furono trasferiti a Ferramonti come i tanti ungheresi, polacchi, tedeschi, apolidi partiti da Bratislava e sbarcati sul piroscafo Pentcho a Rodi il 16 maggio del 1940. Molti degli internati, non avendo un posto a cui tornare dopo la deportazione, restarono dentro il campo anche dopo la sua liberazione del ’43 e fino alla sua chiusura avvenuta nel 1945. La Relazione militare del 1°ottobre 1943 dalle autorità inglesi di liberazione segnalava la presenza di 1854 prigionieri nel campo, di cui 1296 donne, 338 uomini, 140 bambini e 80 anziani. Secondo le ricostruzioni in atto, nessuno fu deportato da Ferramonti e non vi furono decessi dovuti alle violenza del personale addetto alla sorveglianza. Le uniche morti violente travolsero una donna e tre uomini uccisi da una raffica di mitragliatrice di un caccia Alleato durante un combattimento aereo contro i tedeschi. Molti internati in età avanzata morirono per problemi cardiaci o alla tubercolosi. Tutti godettero di sepoltura all’interno del piccolo cimitero cattolico di Tarsia (sedici sepolture registrate, ma solo quattro ancora presenti) e del cimitero di Cosenza con ventuno sepolture registrate e tutte presenti ad oggi.

    I volti e le storie - Gente comune, etichettata come sovversiva, arrestata senza processo ed internata in un luogo che non smarrì la sua umanità nelle pieghe del delirio nazi-fascista ed che oggi testimonia la forza e la tenacia della Speranza. Il geometra comunista di Gorizia Luigi Martinelli, il contadino comunista romano Tiberio Ducci, l’avvocato socialista genovese Carlo Bava, il meccanico di Como Tranquillo Pusteria, il commerciante di Massa Carrara Athos Bugliani, il commerciante di Macerata, residente a Gorizia Vencelsao Rozlin, il calzolaio di Fiume Daniele Dobrez. Sono solo alcuni dei volti di chi, opponendosi al regime Fascista in Italia e non solo, ha perso in quegli anni la sua libertà. Sono solo alcuni di coloro che furono internati a Ferramonti le cui storie, corredate da documentazione (foto, lettere, provvedimenti delle Questure che disponevano lo stesso internamento) raccolte presso l’Archivio Centrale di Stato a Roma da Francesco Folino, sono oggi in esposizione nella ex sala dispensa viveri degli internati nel campo di Ferramonti di Tarsia. Alla ricostruzione ed alla conoscenza della storia del campo di Ferramonti contribuiscono le immagini della pellicola di Gabriella Gabrielli sceneggiata da Roberto Leoni ed intitolata ’18 mila giorni fa’ (Italia 1993), le note del “Valzer di Ferramonti”, composto dal M° Kurt Sonnenfeld durante la sua prigionia e le pagine delle opere di Carlo Spartaco Capogreco, presidente della Fondazione Internazionale Ferramonti di Tarsia per l'Amicizia tra i Popoli con sede a Cosenza, e di Mario Rende. Costui in particolare documentò l’attenzione riservata dal Vaticano al campo calabrese con interventi sul governo fascista per evitare qualunque deportazione. Un impegno che al Vaticano non può riconoscersi anche per l’orrore nei campi nazisti. L’edificazione della cappella cattolica a Ferramonti fu notizia di prima pagina per "L'Osservatore Romano" del 24 dicembre 1941 ed è notorio il gesto di Papa Pio XII, Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli in persona, che fece pervenire in dono agli internati un harmonium (organo per l’esecuzione di musica sacra). Una teca del museo di Ferramonti custodisce il certificato della Santa Sede.

    Il campo ed il museo della Memoria - Novantadue capannoni, alcuni di 335 m² di estensione, con due camerate da trenta posti, e capannoni da 268 m² situati su una superficie paludosa di circa 160.000 m², su un’area poi tagliata in due al momento di tracciare il percorso autostradale ed oggi costeggiata dall’A3 Salerno Reggio Calabria. Il campo, o meglio quel che ne resta, dal 2004 è un museo della Memoria sostenuto dalla Fondazione Museo internazionale della memoria di Ferramonti con sede a Tarsia e dal Comune di Tarsia. La casa del direttore, la direzione dei lavori ditta Parrini, lo spaccio, il comando e la dispensa viveri per internati, dunque gli alloggi ed alcune strutture tecniche sopravvissute all’incuria delle autorità del immediato Dopoguerra, oggi ospitano il Museo, la riproduzione in legno del campo prima del progetto autostradale, una sala convegno, una sala video ed una sala espositiva che ospiterà fino al 10 febbraio, nell’ambito della articolata manifestazione in concomitanza con il 27 gennaio 2013***, le mostre dal titolo: “Chi salva una vita salva un mondo intero, la Shoah, Israele e i giusti fra le nazioni”, a cura di Paolo Coen, per l’ambasciata d’Israele in Italia e la mostra fotografica “Vedere l’altro, vedere la Shoah” a cura di C. Bellucci, I. Calidonna, A. Carelli, A. Dattilo, A. Gaudioso e G. Misteri. Sono alcuni dei luoghi oggi tappa di percorsi didattici per scuole e visitatori, mentre ancora il percorso di recupero della memoria attraverso documenti, foto, provvedimenti, lettere familiari, pensieri, diari ed oggetti personali (custoditi nelle teche) continuano ad essere portati a Ferramonti dalle persone sopravvissute che sono tornate in Calabria per testimoniare e contribuire a ricordare. Lo ha fatto Dino Neuman nato dentro il Campo il 15 marzo 1944 e di cui il museo custodisce il certificato di nascita. Ma ci sono anche foto dei matrimoni celebrati dentro il campo, delle classi che studiavano, delle lezioni di musica, delle partite sportive, delle persone che uscivano per lavorare con i contadini del luogo che, in un clima di solidarietà, offrivano loro anche cibo e beni di prima necessità da portare dentro il campo. Una pagina di condivisione tutta meridionale che ha unito la moltitudine di persone giunte da paesi anche stranieri con la comunità di Tarsia. Tracce di una vita possibile nonostante le leggi razziali, il buio del regime e di una tenace speranza che questo spaccato di Calabria continua a testimoniare nei decenni, nonostante la grande storia lo rimuova costantemente. Una vita possibile grazie ai vertici illuminati, uomini sensibili, coraggiosi e magnanimi, a capo del campo posto sotto la responsabilità del Ministero dell'interno (Direzione generale della Popolazione e della Razza) e la cui sorveglianza esterna era stata affidata alla Milizia volontaria per la salvaguardia nazionale. Nonostante un rigido regolamento, la comunità del campo di Ferramonti si era dotata di una struttura democratica che fu ‘tollerata’ dalla direzione. La Circolare ministeriale n. 442/12267, emanata l'8 giugno 1940 ed avente ad oggetto la prescrizione per i campi di concentramento e le località di confino, portò all’emanazione anche a Ferramonti del regolamento disciplinare. Sottoposti a 3 appelli giornalieri, agli internati era fatto divieto di uscire dalle baracche prima delle 7.00 e dopo le 21.00, di superare i limiti del Campo senza uno speciale lasciapassare, di occuparsi di politica, di leggere, senza autorizzazione, pubblicazioni estere e di intrattenere corrispondenza., di detenere ed usare apparecchi fotografici e radiofoniche e carte da gioco. Nessun obbligo di lavorare, con la possibilità di ricevere un sussidio governativo. Divieti che non divennero ostacolo per la vita democratica all’interno del campo. A segnare, infatti, la rottura con le brutalità degli altri lager (il campo di Ferramonti infatti era come una piccola cittadella, una comunità munita di scuole, sinagoghe, biblioteche, asili, un tribunale) il direttore Paolo Salvatore, commissario di Pubblica Sicurezza, ed il comandante Gaetano Marrari che consentivano agli internati di scrivere e di lavorare fuori, di vivere come una comunità soggetta a regole democratiche. Ufficiale che non dimenticarono di essere uomini e che rischiarono la loro vita, salvandone altre. Lo stesso direttore Paolo Salvatore venne sollevato dall’incarico agli inizi del 1943 perché troppo ‘umano’ con gli internati. Brillano nelle ricostruzioni anche le figure del frate cappuccino Callisto Lopinot e del Rabbino Riccardo Pacifici inviato da Genova e a cui è intitolata a Tarsia la via su cui oggi si trova il museo della Memoria di Ferramonti.

    I ricordi di Maria Cristina Marrari - La figlia del maresciallo Marrari, Maria Cristina instancabilmente oggi racconta la straordinaria semplicità di uomo al servizio dell’uomo, di maresciallo al servizio dello Stato ma non succube del regime. Lei, con la famiglia, finite le scuole, agli inizi degli anni Quaranta visse nel campo con il padre. Due aneddoti significativi racchiudono il senso del suo operato di uomo non accecato dagli ordini di Stato ma illuminato dalla saggezza. C’era la guerra e per quanto la vita nel campo non fosse dura come altrove, vi erano stenti e bisogni. "Così chi sceglieva di lavorare veniva accompagnato dagli agenti fuori dal campo dagli agenti affinchè aiutassero i contadini. Al rientro portavano legna ma sotto quella legna, ricorda Maria Cristina Marrari, in realtà vi erano beni di prima necessità che gli internati erano riusciti a comprare o a barattare e che sarebbe stato vietato introdurre dentro il campo stesso". La vita dentro era dura ma per quanto possibile si respirava ‘aria di libertà’. Il comandante Marrari consentiva recite e concerti ai quali partecipava con la famiglia. Un’umanità palpabile nelle parole delle lettere che gli internati gli scrissero dopo la liberazione e che ancora la famiglia conserva gelosamente. Poi quell’episodio, che per il maresciallo Marrari rappresentò il massimo rischio. Per evitare l’ingresso dei Tedeschi giunti al campo per prelevare internati e deportarli ai lavori forzati o alle camere a gas, issò la bandiera gialla per segnalare una epidemia di colera. I tedeschi della corazzata di Hermann Goering non entrarono in quel campo per controllare e quelle vita furono salvate.

    Mario La Cava a Ferramonti e a Gerusalemme - Venne a conoscenza del campo calabrese dopo aver raccontato il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, celebrato a Gerusalemme a partire dal 10 aprile 1961, lo scrittore originario di Bovalino in provincia di Reggio Calabria, Mario La Cava. Poi volle visitarlo, ascoltarne le storie e immaginarne i volti e condividere questa esperienza nel suo articolo apparso sul Corriere della Sera nel 1984 e riproposto nel 2011 dal Quotidiano della Calabria. Mario La Cava scoprì del campo dopo la guerra quando scoprì altresì che la stessa scrittrice di origine ebrea Natalia Ginzburg sapeva della vita che vinse sulla morte e sull’orrore in questo lembo di terra. A Mario La Cava si deve, nel suo reportage, anche il racconto dell’uomo che fu dentro il campo il maresciallo reggino Gaetano Marrari “Anche i servizi più ingrati ai quali si fosse costretti, potevano essere ingentiliti dall'umanità di che li avesse compiuti. Ed il maresciallo Marrari, uomo semplice, fu all'altezza dei suoi umani ideali. Le testimonianze degli internati parlano chiaro(…)”. La Cava, rimase molto legato alla sua Calabria ma al contempo fu capace di un profondo sguardo sul mondo. Guardando all’impegno civile della sua scrittura (si pensi alla storia di Slavoj Slavik, giovane attivista antifascista, narrata nel romanzo “Una stagione a Siena” in cui racconta del suo periodo universitario e della sua amicizia con lui) e alla sua attenzione all’Olocausto ciò emerge chiaramente.
    La storia travagliata dello stato di Israele non impedì d assicurare giustizia per il dramma della Shoah. Così Israele fu al centro del mondo al momento del processo ad Adolf Eichmann, catturato a Buenos Aires. Negli anni Sessanta, infatti, Gerusalemme fu meta per tanti giornalisti che raccontarono le udienze dello storico processo che si concluse con la condanna a morte eseguita per impiccagione il 31 maggio del 1962. Tra loro Mario La Cava, inviato del Corriere Meridionale di Matera, che poi avrebbe raccontato l’esperienza nel volume ‘Viaggio in Israele’, diario – saggio pubblicato per la prima volta nel 1967 con i caratteri di Fazzi di Lucca ed oggi arrivato a tre ristampe, ed anche Hannah Arendt che seguì le 120 sedute del processo come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme. Furono entrambi colpiti dall’impassibilità agghiacciante di Eichmann uomo accecato dall’obbedienza, per il quale la fedeltà al regime significò abdicare alla facoltà di pensare e di discernere il bene dal male. Una normalità terribile che era emersa anche a Norimberga. Otto Adolf Eichmann fu responsabile della sezione IV-B-4, competente sugli affari concernenti gli ebrei dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA).
    Hannah Arendt, il cui resoconto ed i cui commenti furono pubblicati nel 1963 nel libro "La banalità del male" (Eichmann a Gerusalemme), scrive che "le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne demoniaco ne mostruoso".
    Mario La Cava non seguì solo il processo ma visitò la terra di Israele sicchè il suo diario narra della situazione di un popolo e del suo destino dentro la Grande Storia.

    Il cammino della Memoria a Ferramonti - Il cammino di ricostruzione è ancora in atto grazie alle persone che dai luoghi in cui hanno ricominciato la loro vita, ritornano a Ferramonti per testimoniare e consegnare tracce della loro permanenza alla memoria collettiva di cui questo museo è prezioso presidio. Lo hanno fatto in tanti in questi anni e ancora altri si uniranno sulle orme di Emanuele Pacifici, Rita Kok, Edith Fischof Gilboa, Dina Friedman Semadar, Rachel Porcilan e Joseph Wesel.
    Il cammino di ricostruzione è ancora in atto di pari passo con la testimonianza di chi torna in Calabria, terra che ha cambiato il loro destino.

    Il 29 gennaio u.s., il convegno “Ferramonti e Marzabotto uniti nella memoria”, organizzato da CGIL Calabria e dallo SPI Regionale, con la partecipazione della Segretaria Generale dello SPI Nazionale Carla Cantone, del Sindaco di Marzabotto e del Sindaco di Tarsia, dell’ANPI di Marzabotto e di Cosenza, delle Leghe SPI dell’Emilia Romagna e della Calabria, oltre che dei dirigenti sindacali regionali della CGIL e dello SPI dell’Emilia Romagna e della Calabria, ha chiuso le manifestazioni promosse dal Museo di Ferramonti per la Giornata della Memoria. La manifestazione ha funto da cornice alla visita di numerose scolaresche che avvicendano in quei luoghi, sulle orme della Storia. Lo scopo della giornata è stato quello di suggellare il gemellaggio tra Ferramonti (CS), il più grande campo di concentramento fascista in Italia e Marzabotto (BO) dove invece fu compiuto il più terribile massacro dai nazisti nel nostro Paese dal 29 settembre al primo ottobre 1944. Due luoghi che uniscono la loro Memoria per un avvenire diverso.


    Edited by Simona s - 2/8/2013, 12:19
     
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    Il museo se lo merita proprio!
     
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