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Memorie:Qui dove è quasi distrutta la storia,resta la poesia.I versi di Pascoli per Reggio

Storia

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    Memorie - ''Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia'', i versi di Pascoli per Reggio

    - Fonte -
    di Anna Foti


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    Sul Lungomare più bello di Italia, e probabilmente non solo dell'Italia, proseguendo tra la sua parte alta (Via Vittorio Emanuele) e quella bassa (Lungomare Falcomatà), poco dopo Piazza Indipendenza procedendo verso il centro di Reggio Calabria, una stele è stata collocata. Posta a memoria imperitura, essa ricorda ai posteri che un illustre poeta italiano dell'Ottocento, di cui quest'anno si celebrano i quattrocento anni dalla morte, Giovanni Pascoli, non solo era stato a Reggio Calabria, ma la sua permanenza, per altro in un frangente davvero molto difficile come quello del sisma del 1908, fu motivo di incontro con il famoso latinista reggino Diego Vitrioli ed ispirazione per alcuni versi sulla stessa stele riportati.

    Una parte di una lirica di Giovanni Pascoli:
    'Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte. Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, imagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. È un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell’aurora, sotto le porpore iridescenti dell’occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella, per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il frutto, lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella che lascia dietro sè lacrime, ma quella cui segue l’oblio. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia'.

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    Si tratta di una parte di una lirica di Giovanni Pascoli intitolata "Un poeta di lingua morta", della raccolta 'Pensieri e discorsi', 1914, che il poeta emiliano, morto a Bologna il 6 aprile di cento anni fa (1912), scrisse mentre si trovava in questo lembo di terra, ossia lo stretto di Messina, per insegnare Letteratura Latina all'Università di Messina tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. La sua esperienza di docente latinista lo condusse anche a Pisa e Bologna. Conobbe e strinse legami con Giosuè Carducci, di cui fu allievo all'università di Bologna e poi docente suo successore, e Gabriele D'Annunzio, Giovanni Agostino Placido Pascoli, 'il poeta vate' autore de 'Il fanciullino', delle 'Myricae', dei 'Canti di Castelvecchio', dei 'Poemi del Risorgimento', è ritenuto tra i più fulgidi rappresentanti del periodo romantico- decadente. La sua vita segnata da un iniziale impegno politico socialista anarcoide che ne provocò, in un certo qual senso, l'arresto ed un periodo di detenzione di oltre 100 giorni, fu segnata da profonda malinconia.

    Negli ultimi anni, il fallimento dell'unione familiare, la sua visione pessimistica dell'esistenza umana, anima della sua originale rivoluzione poetica, lo consegnarono a quell'alcolismo che lo avrebbe consumato.

    Un nido familiare tormentato ma imprescindibile che diviene per Pascoli il microcosmo da preservare innalzando barriere che lascino il mondo reale, con la sua razionalità, fuori; un microcosmo, fatto di natura, di amore e di morte, attraverso il quale guardare alle cose con semplicità, candore e purezza, attraverso il cuore e l’animo di un fanciullino. La potenza dell'intuizione contro il dominio della ragione e la poesia quale nido in cui rifugiarsi.

    Di lui il grande poeta italiano del Novecento Mario Luzi, scomparso nel 2005, scrisse:
    '' (...) In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura''.

    Saggi e poesie, intrisi di spiritualismo e ed idealismo,unitamente a questo senso di strenua resistenza e difesa di una dimensione incontaminata e faticosamente raggiunta, questa l'eredità del poeta emiliano che conobbe Reggio Calabria e che di lei colse l'anima e la profondità della sua identità, mirabilmente espressa nei versi scolpiti sulla stele.

    La lirica, che esordisce con i versi riportati sulla stele, prosegue così:

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    'E in questo paese, sino a pochi giorni sono, era il poeta. Chi me ne parlò quando io era ancora giovinetto — ahimè! più di trenta anni fa — in collegio, a Urbino? Un vecchio frate che conosceva anch’esso i doni delle Muse, il padre Giacoletti, il cui nome non s’aggira più, che io sappia, che in qualche melanconico chiostro di seminario. Quel nome era allora illustre per poemi latini sull’ottica, niente meno, e sul vapore. Il vecchio frate per il quale noi avevamo una ammirazione quasi paurosa, parlava spesso di un poeta, d’un latinista, appetto al quale egli era un nulla; che abitava lontano lontano nell’estremo lembo d’Italia. Io non dimenticai più quelle parole di lode suprema e quel cenno (il buon frate trinciava l’aria come il Galdino Manzoniano), quel cenno di distanza infinita. Sì che quando, or sono pochi mesi, mi trovai in quel lembo d’Italia, io ripensai subito al poeta, al Genio del luogo. Egli era bene un poeta, e il poeta, sapete, è quasi un creatore, poichè è colui che con le parole — fiat lux — illumina d’un tratto l’oscurità che ne circonda. Certo la stella e il fiore, la serenità e la tempesta erano anche prima che il poeta ne parlasse, e voi avevate gli occhi per vederle; ma voi non guardavate, e le cose belle erano come se non esistessero: la sua parola fu che per voi le creò. E così io pensava a questo poeta dell’estrema Italia, dove le onde greche si fondono con le latine, come a uno spirito misteriosamente remoto che da un suo speco vegliasse a creare questo mondo fantastico con le Nereidi ululanti dal mare e con le città morte pendenti nel cielo. Mi aveva l’aria, questo poeta segregato dal mondo, se m’è lecito dirlo, d’un Proteo vecchio marino verace, che sapesse i gorghi di tutto il mare.
    ” Giovanni Pascoli, "Un poeta di lingua morta", 'Pensieri e discorsi', 1914

    Edited by Isabel - 15/10/2014, 15:26
     
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