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Acquaformosa

Provincia di Cosenza

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  1. Isabel
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    Acquaformosa

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    - Fonte - Fonte -

    "Dopo la morte dell’eroe nazionale albanese
    Giorgio Castriota, Skanderbeg,
    avvenuta nel gennaio 1468,
    incominciarono gli esodi dei profughi
    albanesi verso l’Italia
    ..."


    Acquaformosa (Firmoza in albanese) è un comune di 1.184 abitanti della provincia di Cosenza in Calabria. Il paese, collocato ad un'altitudine di 756 metri s.l.m., fa parte delle minoranze etniche e linguistiche arbëreshë, presente in tutto il territorio dell'Italia meridionale. La popolazione custodisce usi, costumi e tradizioni portate molti secoli fa dalla terra natia, parla ancora l'avita lingua albanese e conserva il rito greco-bizantino, soggetto alla giurisdizione ecclesiale dell'Eparchia di Lungro. Dal 4 agosto 2009 è stata approvata, in consiglio comunale, l'iniziativa di montare dei pannelli all'interno della cittadina con scritto "Comune deleghistizzato".

    Storia

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    Le origini storiche di Acquaformosa risalgono al 1195, allorché, per generosità dei signori di Altomonte, venne fondata l'Abbazia di Santa Maria di Acquaformosa dell'ordine Cistercense. Una leggenda narra invece che la principessa Irene Castriota, figlia dell'eroe Giorgio Castriota Scanderbeg, soggiornasse presso l'Abbazia e una volta bevendo l'acqua della Badia, abbia esclamato: "Che acqua formosa!" e che da allora abbia cambiato il nome da Ariosa in Acquaformosa. Le primordiali origini della comunità quindi si possono far risalire al 1200, intorno ad al convento di Santa Maria di San Leuceo, ma l'incremento e la crescita del casale fu proprio opera degli albanesi tra il 1476 e il 1478, che si stabilirono nel territorio. Acquaformosa fece parte del vastissimo stato dei principi di Bisignano che cedettero alcune prerogative sul casale in favore di Ottavio Papaleo di San Pietro in Galatina nel 1564.

    La nascita di Acquaformosa

    - Fonte -

    Le origini storiche del nome Acquaformosa risalgono all’anno 1197. L’Abate Luca dell’Abbazia Sambucinese, chiamato dal conte Rainoldo di Altomonte; edificò l’Abbazia di Santa Maria di Acquaformosa. Il prof. Francesco Russo dice che l’Abbazia fu fondata nel 1191. Essa fu la più ricca delle filiali di Sambucina. Nell’anno 1501, l’Abate commandatario dell’Abbazia di Santa Maria di Acquaformosa, Carlo Cioffi, accolse un gruppo di profughi Albanesi, che lo pregarono di far edificare loro un casale nei territori del Monastero. L’Abate acconsentì e così che in tale anno il Pellegrino Capo, Giorgio Cortese e Martino Capparelli con altri 19 profughi albanesi, fondarono Acquaformosa prendendo lo stesso nome dell’Abbazia.

    Capitolazioni degli Albanesi di Acquaformosa col Monastero di Santa Maria

    Sub anno Domini 1501 Regnante in Nobis in hoc Regno Siciliae Citra Farum Rege, et Regina Ispaniae etcetera. Innante dello reverendo Abbate Carlo De Cioffis perpetuo Commendatore dello Venerabile Monastero de S. Maria de Acqua Formosa, sonno comparsi certi Albanesi,1i quali si chiamano Piligrino Caparello, Giorgi Curtise, Martino Caparello, et più altri albanesi, quali donano supplicazione a detto M (es serj Abbate li voglia lassare edificare uno casale dentro 1o terri tono de detto Monasterio, et intendendo questo 1o predetto M. Abbate, have chiamato tutti li Monaci sonno in ditto Mona stero, et Fatto Capitolo, et havuto fra loro maturo et sano consiglio, have parso a detto M. Abbate. et Capitulo volerce lassare habbitare, et far detto Casale, attendo ché ne risulta più presto grande utilità a1 detto Monastero, che dannu nesciunu pe li quali Albanisi havendo tal risposta dallu predetto M. Abbate et Capitulo. che possono edificare detto Casale haveno promesso per ciascheduno annu al detto M. Abbate. et suo Mo nasterio, le sottoscritte cu promessione. et ditto M. Abbate, et Capitulo, li haveno concessi li subscritti Capituli, et Gratie alli detti Albanisi, li quali promissioni di detti Albanisi sono 1'in frascritti. Videlicet:

    In primis detti Albanesi promettino edificare et construire detto Casali, et abitare dintro lo territorio di detto Monasterio in loco dovi si chiama Arioso.
    Item detti Albanesi promettino al detto M. Abate, et suo Monasterio pagare di casalinaggio per ciascheduno pagliaro per ciascheduno anno tarì uno, e grana cinque in dinare.
    Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate ed suo Monasterio di pagare la decima di tutti animali minuti per ciascuno anno nel mese di agusto delli allevi si faranno come son pecore, capri, porci, et non ascendendo alla somma di dieci debano pagare un grano per testa.
    Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate ed suo Monasterio di pagare per ciaschedun anno una gallina per pagliaro che habiterà in detto Casale.
    Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate ed suo Monasterio pagare per ciaschedun vitello, o vitella nascirà quello anno nel mese di agusto grana dieci.
    Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate ed suo Monasterio quando è la festa de S. Maria Benedetta de la mità de agusto siano tenuti de venire ad aiutare in detto Monasterio, et in ogni altra cosa avesse bisogno detto Monasterio.
    Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate ed suo Monasterio di pagare ciascheduno anno nel mese di agusto docati dui per le cerze di S. Maria di Lanzo, et che nulla persona, nè Albanesi, nè altri di ditto Casali nè possa tagliare nè parramare quanto fossi una rame, et facendo il contrario incorre alla pena di carlini quindici, et cossì chi tagliasse e perramasse nella difesa di detto M. Abbate.
    Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate ed suo Monasterio di donare per ciaschedun anno una giornata per paricchio di bovi ad ogni requesta delli ministri di esso M. Abbate et quando fosse alcuno di detti Albanesi requesto per tal giornata, et non possendo venire quello giorno habbia tempo venire otto giorni, e se intende che se uno albanese haverrà più paricchi, una giornata, et non più, et chi haverrà uno bove se potrà acochyare cò un altro. Ma le bacche nò siano tenute.
    Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate ed suo Monasterio di pagare nel mese di agusto per ciascheduna tumulata di terra per fare vigne grana sette e mezzo, et che lo detto M. Abbate non possa accrescere detto censo per qualsivoglia cagione per lo avvenire.
    10° Item detti Albanesi promettino allo predetto M. Abbate fra termino di doi anni fabbricare case, et far paglaire per loro habitazione, et bestiame, per le quali non le sia dato fastidio nè domandato pagamento alcuno, eccetto che il pagamento, et la decima del casalinaggio sopradetto, et la decima per lo bestiame.
    11° Item che detti Albanesi possano scommettere le castagne giusta la via che va all’Ungro, et viene all’Abbatia, il dì di tutti i Santi, e li cerasi della via che va allo Palcone de retro lo Spitali, et esci allo limiti grande, dond’è la pera moscarella, et corrisponde allo ormo russo sopra parte il dì de Natale, et volendo detti Albanisi per servitia del casali delli castagni, et cerase pascolarvi a loro modo dal dì della strigula, quando si serra la difesa, siano tenuti pagare docati dieci, et esso M. Abbate non possa alterare detto prezzo delli Docati dieci.
    12° Item il predetto Messer Abbate et suo Capitulo concede per demanio alli predetti Albanesi dalla strada che veni dallo molino et viene all’acqua della castagna, et intorno la chiusura dello piano et per lo molinello, sipala sipala, et esci allo vallone di retro lo Spitali valloni valloni et corrisponde alla strada che anda all’Ungro, e che li procuratori non posson fidare a detto demanio di nisciuno tempo.
    13° Item lo predetto Messer Abbate et suo Monasterio promettino alli detti Albanisi di detto Casale tutte terre che sonno al distretto di detta Abbatia, et dentro al distretto di Altomonte, che si possono far massarie et de tutti grani, orgi, favi, lino, cannavo, ed ogni altro vittovaglio se faranno, in detta terra dello Monastero, non possono andare detti Albanesi ad altre terre obbligandosi ad pagare la decima d’onni cosa.
    14° Item supplicano detti Albanesi allo predetto M. Abbate che di grazia li voglia concedere che quando li bovi, bacche, giumente, somare fossero accusate per lo danno avessero fatto non habbiano a pagare per ciascheduna bestia grossa di pena se non gr. 3 et de bestie minute come son capri, pecore, et porci non habbiano a pagare se non grano uno per bestie minute.
    15° Item petino detti Albanesi del predetto M. Abbate che de già li voglia concedere che tutti accuse li fussero fatte che quello che accusa volendosi pentire tre dì dopo fatto detta accusa, detta penitenza le sia ammessa, e che non possa più procedere sopra tale accusa, ma non di danno data, et che non si possa componere in cosa alcuna senza intervento del Sindaco et delli eletti di detto Casale, et che lo Capitano non possa esercitare l’offizio se prima non dona plegiaria di star a sindacato, e che lo Capitano di quell’anno non possa far l'Ufficio per l’annata venire.
    16° Item petino detti Albanesi dal predetto M. Abbate che di grazia li voglia concedere che de tutti accusi li fossero fatti non abbiano da pagare, eccetto grano uno per ciascuna cassatura, et che possano andare in comune alle cerze di sotto lo mulinello della vigna sotto la fontana.
    17° Item petino detti Albanesi del predetto M. Abbate che di gratia li voglia concedere che quando detti Albanesi sono comandati tanto personali, come cò loro bestie per andare per servizio di detto M. Abbate, et soi ministri pernottando li voglia far pagare cossì come si paga per lo contorno, seu convicino.
    18° Item petino detti Albanesi del predetto M. Abbate che di gratia li voglia concedere che accadendo lo loro bestiame facessero danno in alcuno luogo, che detto bestiame non possa essere ammazzato, si non esser tenuto allo danno et alla pena essendo accusati. Ma quando avrà fatto buttar banno che ognuno metta lo manfone alli porci trovandosi senza mangone lo possa ammazzare, portando lo quarto alla Chiesia.
    19° Item petino detti Albanesi li voglia concedere in gratia che alcuni Albanesi si volessi parire da detto Casali si poi si possa vendere li majise, vigna, et arbore fruttanti, ovvero casa fabbricata de calce, et arena senza altro impedimento.
    20° Item petino detti Albanesi che di gratia li voglia concedere che lo Camberlingo di detto Casale per quell’anno è nell’uffizio sia franco de casalinaggio, et de metitura et lo Sindaco, et baglivo siano franchi di casalinaggi, et altre cose pagar come pagano le altri.
    21° Item petino detti Albanesi del detto M. Abbate che di gratia li voglia concedere che tutti li prejiti di detto Casali siano franchi de casalinaggi, di decime di tomolate cinq. Di terra, dieci crapetti, dieci ajini, et dieci porcelli per uno, et de una vitella. Li altre cose pagano.
    22° Item petino detti Albanesi del preditto M. Abbate che di gratia li voglia concedere che possano trasiri loro bestiami di qualsivoglia generatione dentro la difesa de lo cerzito de Santo Antonj di genaro havanti, et fino ad Santo Antonio della Strigula di ottobre.
    23° Item petino detti Albanesi del preditto M. Abbate che non possa esigere nè far esigere da albanesi habbitanti et commoranti in detto Casali che cò loro bestiame danni facessero la defesa dello cerzito dell’Abbatia, cioè dalla strada ad alto da Santo Antonio di ottobre per fino a S.to Antonio di gennario più che carlini 15 di pena per ciascheduno padrone di bestiame per ogni volta che si troveranno in detta difesa et fandose carnaggio di bestiame piccole non sia tenuto ad altra pena si non allo carnaggio da farsi uno per murra et non più.
    24° Item detto M. Abbate et Convento volino che detto casale non possa mandar lo bestiame loro di nisciuna sciorte a pascire in lo piano che sta avante a lo Monasterio videlicet dallo vallone che sta da reto lo Spitale insino allo vallone che va all’acqua allo molinello dall’altra banda, lo Monastero dalla parte di tramontana, dall’acqua che va pure allo molinello de nullo tempo, eccetto quando se cognoscesse alcuno bestiame domiti grossi, come sono bovi domati, giomenti, o somari accaduto distrusamento, et quando si cognoscesse esser fatto con fronde debbiano incorrere alla pena di la difesa di sopra via quando se guarda.
    25° Item petino detti Albanesi del detto M. Abbate che di gratia li voglia concedere che possano tagliare ligname morta de ogni tempo per tutta la difesa senza incorrere a pena alcuna, et per uso de casa se possano tagliare in detta difesa ligname virda con licenzia di detto M. Abbate e suoi ministri.
    26° Item che non possano venire ad habitare in detto Casali persona alcuna se pria non ne darà notizia ad esso M. Abbate, et al Sindaco, ed eletti dello stesso Casali, anzi si possano informare di la qualità, et essere di quel tale et essendo homo di mala vita, et qualità essi albanesi possono recusari di non farlo habitare, atteso non succedano scandali in detto Casali et habitati da persone quiete non delinquenti et scandalosi, et che nullo citatino, nè forastiero si possano levar le terre l’uno coll’altro, a ciò nò ce occorre alcuno scandalo, ma che ognuno habbia le terre have aperte, et massime dove sono fatte cesine. Et perchè de li sopradetti capitoli se ne contenta tanto lo predetto M. Abbate e il Convento quanto li Albanesi di detto Casali ne hanno fatto la presente scrittura per mano di Cola di Natale di Maratea habbitante in Altomonte per difetto di notaro, et volino tanto l’una parte, come l’altra, vaglia per pubblico instrumento, et per cautela di esso M. Abbate et Convento et di essi Albanesi, et subscripta di mano di esso Messer Abbate Carlo manu propria”. I primi albanesi che si presentarono all’abate erano Pelegrino Caparello, Giorgio Curtise e Martino Caparello. Il primo luogo dove gli albanesi edificarono il loro casale fu la località chiamata “Arioso”. Ma il luogo prescelto fu ben presto abbandonato, gli albanesi si spostarono e costruirono le loro abitazioni più vicino al Monastero. Verosimilmente le prime abitazioni furono costruite a ridosso del primo oratorio degli albanesi di Acquaformosa, la Chiesa della Concezione, edificata sin dai primissimi anni del 1500. Gli abitanti di Acquaformosa nel 1501 erano 22, così come ci tramanda il De Marchis basando il suo dato su documenti dei primi del 1800, erano 135 nel 1543. Nel 1669 gli abitanti erano circa 510, nel 1861 si contavano 1661 anime, gli abitanti nel 1951 erano 1812, nel 1999 gli abitanti sono 1356. Casale di Altomonte fino all’inizio del 1800 Acquaformosa divenne Comune autonomo a seguito delle leggi francesi che riorganizzarono amministrativamente il vecchio regno borbonico. Solo nel 1848, a seguito di numerosissime dispute legali il territorio di Acquaformosa ebbe la consistenza che ancora oggi conserva. La popolazione di Acquaformosa parla ancora l'avita lingua albanese, appartiene alla Chiesa Cattolica di rito grco-bizantino, custodisce usi e tradizioni portate molti secoli fa dalla terra natia.

    I Cistercensi: la fondazione di Citeaux


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    Ci furono anche diversi tentativi di ristabilire nella sua integrità la Regola benedettina, alla quale i cluniacensi avevano apportato troppe innovazioni. Il più importante di questi tentativi fu quello che ebbe come iniziatore l'abate Roberto di Molesme. Questi, dopo essere stato abate di Saint Michel de Tonnère, entrò in relazione con un gruppo di eremiti che, edificati dalla sua santità di vita, gli chiesero di diventare la loro guida spirituale. Abbandonata la carica di abate di Saint Michel, si trasferì, quindi, con i suoi discepoli a Molesme, dove fondò un eremo. I primi anni furono duri e difficili, quanto quelli che lo stesso abate Roberto M. Lemonnier, op. cit., 234 ed i suoi seguaci desideravano, poi la gente, conscia dell'estrema povertà in cui vivevano gli eremiti, cominciarono a ricolmarli di doni fino a far diventare Molesme un eremo ricchissimo. L'abate Roberto lo fece osservare ai compagni e fece capire loro che, se intendevano praticare veramente la Regola benedettina, dovevano procurarsi cibo e vestiti col proprio lavoro. Non tutti compresero la lezione e l'abate Roberto lasciò Molesme e si ritirò con altri monaci ad Aux, dove si trovava un'altra comunità eremitica. La partenza dell'abate provocò un terremoto a Molesme. La disciplina andò rilassandosi ed anche le offerte diminuirono. L'abate Roberto fu pregato di ritornare a Molesme. Probabilmente vi fece ritorno nel 1093. Nell'eremo non riuscì più a far rispettare l'antica Regola, così, spinto anche da altri monaci, tra cui Alberico, dopo 5 anni decise di lasciare nuovamente l'eremo di Molesme. I monaci ingordi, consapevoli che la partenza dell'abate Roberto avrebbe nuovamente fermato le donazioni dei fedeli, fecero scoppiare un grande tumulto che sfociò in vero e proprio scontro fisico. Il monaco Alberico fu picchiato e imprigionato. Ma i disordini non servirono a nulla, l'abate Roberto si recò dall'Arcivescovo di Lione per chiedergli ed ottenere l'approvazione a lasciare Molesme. L'abate Roberto ed i monaci che con lui avevano lasciato l'eremo, si misero alla ricerca di un posto dove fondare una nuova abbazia. Lo trovarono non lontano da Digione, in una zona solitaria: Citeaux. L'Exordium parvum ordinis Cisterciensis, che racconta le origini dell'abbazia di Citeaux descrive con grande dovizia di particolari il sito in cui si decise di fondare l'abbazia. "Era un posto desolato che non offriva nessuna risorsa. Il bosco selvaggio ed inaccessibile era dimora di animali selvatici". Il visconte di Beaume, Rainardo, a cui quel territorio apparteneva, con il consenso del duca di Borgogna, Oddone IÀ, lo donò volentieri ai monaci. Il 21 marzo 1098, gli sfollati di Molesme vi si stabilirono: l'abbazia di Citeaux era fondata. Dopo appena un anno l'abate Roberto, supplicato dall'arcivescovo di Lione, che per l'occasione aveva convocato anche un concilio ad Anse nel 1099, fece ritorno a Molesme, già alla deriva spirituale. Dopo la partenza di Roberto, fu eletto abate di Citeaux Alberico, uno dei più accaniti sostenitori della rigida osservanza della Regola benedettina. Alberico come prima mossa inviò due monaci a Roma per porre l'abbazia sotto la protezione della Santa Sede. Il papa Pasquale IIÀ con una bolla del 19 ottobre 1100 accondiscese senza esitazione alla richiesta. L'abbazia era definitivamente fondata con l'approvazione papale: l'ordine dei nuovi monaci fu chiamato Cistercense dall'antico nome di Citeaux:, Cistercium.

    La regola cistercense

    Quando i futuri cistercensi lasciarono Molesme, lo fecero con l'idea di fuggire dal benessere in cui si viveva in quell'eremo. Di conseguenza, la prima caratteristica del nuovo ordine fu la pratica della povertà assoluta. I monaci avevano portato da Molesme il solo breviario, l'occorrente per celebrare la messa ed il minimo indispensabile per la loro sopravvivenza. In un primo tempo l'abate Alberico non scrisse una nuova regola ma si limitò a codificare i comportamenti che, ripetuti nel tempo dai monaci, erano dagli stessi considerati obbligatori; riunì i monaci, come vuole la regola benedettina, ed assieme deliberarono quanto l'"Exordium parvum" ci ha tramandato: "Questo abate ed i suoi confratelli, ricordando le loro promesse, risolvettero quindi all'unanimità di stabilirsi in quel luogo e di osservare la regola di San Benedetto, abbandonando tutto ciò che fosse contrario a questa regola, ossia le tonache, i pellicciotti, le stoffe leggere, i cappucci e le mutande, i pettini e le coltri, le guarnizioni del letto, le varietà nei cibi in refettorio, persino il grasso e tutto ciò che è contrario alla purezza della regola". Disposero quindi tutto il loro tenore di vita in stretta conformità alla regola, tanto nelle cose ecclesiastiche quanto nelle altre osservanze. Spogliati dell'uomo vecchio, godevano di essersi rivestiti del nuovo. E siccome non leggevano nella regola o nella vita di san Benedetto che questo stesso maestro avesse posseduto chiese ed altari, offerte e sepolture, decime da altri uomini, nè forni, mulini, fondi, contadini, e così pure che le donne potessero entrare nel monastero, nè che egli vi avesse sepolto defunti, eccetto la sorella, ricusarono tutte queste cose dicendo: il beato padre Benedetto, insegnando che il monaco deve rendersi estraneo alle consuetudini secolaresche, rivela chiaramente con ciò che queste cose non devono esistere nelle azioni e neppure nel cuore dei monaci. Questi, fuggendole, devono giustificare l'etimologia del loro nome ... " . Per vivere pienamente la regola di san Benedetto, i cistercensi procedettero alla riforma degli abiti e dell'alimentazione. L'abito cistercense si comporrà unicamente di una tunica di lana greggia, di colore bianco, e di un cappuccio di uguale stoffa e colore. Il letto sarà un semplice pagliericcio con un cuscino, anch'esso di paglia. Riguardo alle abitudini alimentari i cistercensi furono molto severi: niente carne e grasso, il pasto si comporrà al massimo di due portate, una libbra di pane e un po' di frutta. I monaci stabilirono, in accordo con la regola benedettina, di non avere in beneficio nè chiesa, nè cappella, nè cimitero, nè forno, nè mulino, nè possessi feudali, nè decime. Per questo fondarono i loro monasteri lontano dalle città, in mezzo alle foreste, che essi dissodarono, o in mezzo alle paludi, che essi bonificarono con il lavoro delle proprie mani, altra caratteristica peculiare dell'ordine. Ritornarono alla regola benedettina anche per quel che riguarda la vita spirituale. Epurarono le celebrazioni liturgiche da tutte quelle aggiunte fatte dai monaci cluniacensi, dettero nuovamente importanza alla preghiera individuale e alla meditazione.

    San Bernardo Alberico fu abate di Citeaux sino al 26 gennaio 1108, quando morì. Suo successore fu l'inglese Stefano Harding. Questi fu un continuatore del lavoro intrapreso dal suo predecessore. Nonostante l'alone di santità che circondava i primi abati di Citeaux, il nuovo ordine stentava ad imporsi, i novizi erano pochissimi. La svolta si ebbe nel 1112 quando, accompagnato da una trentina di compagni, entrò nel monastero di Citeaux il giovane Bernardo. "A cominciare da questo giorno Dio benedisse talmente Citeaux che questa vite del Signore portò i suoi frutti ed estese i suoi tralci sino al mare ed anche oltre". Così diceva Guglielmo di Saint-Thierry, amico e biografo di colui che diventerà il grande santo cistercense. Con l'arrivo del futuro San Bernardo non solo la storia dell'ordine, ma l'intera storia ecclesiastica del secondo quarto del secolo XIIÀ si raccoglierà attorno alla sua prodigiosa personalità. Egli era nato a Fontaine-les-Dijon nel 1090 da una antica e nobile famiglia borgognona. Fin da giovane visse, sia pure senza essere riuscito ad evitare amicizie pericolose, in modo pio. La sua entrata a Citeaux ad appena 22 anni non fu frutto di una folgorazione improvvisa, ma fu il coronamento della sua condotta di vita.Già nel 1113 Citeaux fu invasa da numerosissimi giovani che chiedevano di entrare nel noviziato attratti dalla figura di San Bernardo. L'afflusso fu così grande che l'abate Harding decise di fondare un nuovo monastero ove potessero trovar posto una parte di essi. La prima filiale di Citeaux fu La Ferté (Saone et Loire) la cui chiesa, dedicata alla Madre di Dio come tutte le chiese appartenenti ai monasteri dell'ordine, fu consacrata il 17 maggio 1113. L'anno seguente fu fondata la filiale di Pontigny (Yonne), nel 1115 furono fondate altre due, quella di Clairvaux (Aube) -- che San Bernardo direttamente fu incaricato di organizzare e di cui divenne abate a soli 25 anni ed alla quale sarà legato in modo particolare tanto da passare alla storia con il nome di San Bernardo di Chiaravalle -- e quella di Morimond. Queste abbazie, hanno tutte un aspetto familiare, perchè la spiritualità di San Bernardo ha loro imposto, per così dire, la pianta, l'altezza, il decoro. A ovest sorge la casa riservata ai fratelli conversi, che guarda verso le officine e verso la radura; a sud l'ala riservata ai monaci; a est c'è il giardino, a nord la chiesa e il cimitero. Al centro il chiostro quadrato, quadrato come è immaginata la città di Dio, con i suoi quattro lati che simboleggiano i quattro fiumi del paradiso, i quattro evangelisti, le quattro virtù cardinali. Questo piccolo spazio ad un tempo è protetto dal mondo e dà vita ad un mondo nuovo. Nel chiostro il monaco passeggia e medita, la processione sfila, l'abate la sera, riunisce i monaci per la lettura e l'istruzione; si tratta di un sermone interamente spirituale, privo di ogni artificio retorico, di ogni orpello, semplice e spoglio come le colonne e i capitelli del chiostro.

    La Carta Caritatis

    Questo rapido sviluppo dell'ordine pose gravi problemi all'abate Stefano Harding il quale oltre a controllare che la regola non subisse alterazioni nelle nuove abbazie, doveva creare un'organizzazione tale da far rimanere aggregate all'abbazia-madre le abbazie-figlie. Per risolvere tali questioni l'abate Stefano scrisse lo statuto d'unione dell'ordine cistercense: la "Carta caritatis". Questa Carta, approvata dai suoi confratelli e dal papa Callisto IIÀ con una bolla del 23 dicembre 1119 rappresenta, la nuova costituzione dell'ordine. Ciò che caratterizzava l'organizzazione stabilita con la Carta Caritatis era il decentramento. La Carta prevedeva che le abbazie-figlie dovevano essere unite a quella madre solo da un vincolo di paterna carità. L'abate di Citeaux, pur restando il padre di tutto l'ordine, non esercita attività diretta se non sulle abbazie-figlie sue. Le elezioni degli abati delle singole abbazie saranno libere e l'abate dell'abbazia madre e quelli delle altre abbazie figlie si limiteranno solo al potere di vigilanza. Le abbazie derivate da una stessa abbazia-madre si assisteranno vicendevolmente. Le abbazie-madri vigileranno sulle abbazie-figlie, viceversa, anche Citeaux sarà soggetta al controllo delle quattro abbazie sue filiali. L'organismo supremo dell'ordine cistercense è il Capitolo generale annuale, che si svolgeva ogni anno a Citeaux e a cui tutti gli abati dei monasteri dovevano partecipare. In quella sede si promulgavano decisioni, si dirimevano liti, si davano le linee guida per il regolare svolgimento della vita nei cenobi dell'ordine. La "Carta caritatis" conteneva anche un'innovazione che interessava la vita della Chiesa nel suo insieme, la fondazione di un monastero non poteva avvenire senza il consenso del vescovo ordinario del luogo . Dopo la redazione del nuovo statuto, l'ordine cistercense ebbe uno sviluppo progressivo; soltanto da Clairvaux -- vivente San Bernardo -- scaturirono 68 nuove fondazioni .

    I Cistercensi in Calabria

    Una delle abbazie-figlie di Clairvaux fu quella di Santa Maria della Sambucina di Luzzi, in Calabria. Sulla derivazione diretta dell'abbazia, comunemente detta della Sambucina, da Clairvaux non tutti gli storici si sono trovati d'accordo. Da taluni la derivazione diretta fu affermata in base a scelte acritiche, da altri fu negata basando le conclusioni su documenti che in seguito sono stati ritenuti falsi. Solo recentemente il De Leo ha confutato tutte le precedenti teorie ed ha dimostrato che la Sambucina è abbazia-figlia di Clairvaux, eretta quando San Bernardo era ancora vivo. Prima di questi recenti studi, la maggior parte degli storici faceva della Sambucina una figlia dell'abbazia di Casamari nel Lazio. A trarre in inganno questi studiosi è stata l'affermazione di Luca Campano, dal 1193 al 1202 abate della Sambucina e poi sino al 1224 arcivescovo di Cosenza, il quale, nel suo breve profilo di Gioacchino da Fiore, ricorda il fondatore dell'ordine florense come "figlio della Sambucina figlia di Casamari". Da qui il passo successivo, di identificare la Sambucina come filiazione di Casamari, fu breve. In realtà la soggezione dell'abbazia calabrese a quella laziale fu successiva. Correva l'anno 1184 quando un grande terremoto sconvolse tutta la Val di Crati seminando morte e distruzione. Il cataclisma danneggiò gravemente anche la Sambucina tanto da imporre la sua ricostruzione. Alla sua riedificazione concorsero in maniera determinante anche i monaci di Casamari. Probabilmente per questo motivo papa Celestino III°, con un privilegio del 6 maggio 1192, riconobbe a Casamari la supremazia sull'abbazia della Sambucina. La ricostruzione storica più attendibile parte dalla contrapposizione che esisteva tra San Bernardo ed il re normanno nella cui giurisdizione ricadeva la Calabria, a causa di un contenzioso sorto intorno alla successione al soglio pontificio. Alla morte del papa Onorio III° furono eletti due papi, Innocenzo II° e Anacleto II°. Quest'ultimo, appoggiato dalla maggioranza dei cardinali, chiese aiuto al normanno Ruggero II°. Innocenzo II° aveva dalla sua parte il re Lotario di Germania, ma soprattutto Bernardo di Chiaravalle, che nel sinodo di Etampes del 1130, si schierò decisamente a suo favore. San Bernardo si schierò contro Anacleto II° sia perchè di discendenza ebraica -- e gli ebrei anche nel medioevo non erano molto stimati -- sia perchè proveniva da Cluny, monastero che San Bernardo detestava a causa delle grandi ricchezze lì accumulate e per lo spirito di mondanità con cui vivevano quei monaci. Solo nel 1139 con la pace di Mignano, e comunque dopo la morte di Anacleto II°, si venne a capo della controversia. Innocenzo II°, accettato da tutti come unico papa , riconobbe a Ruggero il titolo di re di Sicilia e la giurisdizione su tutta l'Italia meridionale. Dopo queste vicende non è da escludere che San Bernardo abbia scritto a Ruggero una lettera con la quale si congratulava per essere stato riconosciuto re di Sicilia. Dopo di che Ruggero invitò San Bernardo a fondare un monastero nelle sue terre. Sicuramente i desideri dei due coincidevano: da una parte San Bernardo voleva allargare i confini del suo apostolato, dall'altra re Ruggero con la venuta dei cistercensi perseguiva due scopi suoi e di tutti i normanni: la rilatinizzazione della Calabria invasa ormai da monaci basiliani di rito greco, e lo sfruttamento economico delle zone montane in cui aveva intenzione di far nascere il monastero. Gli unici documenti che testimoniano lo stanziamento dei cistercensi in Calabria sono alcune lettere dello stesso San Bernardo. Queste lettere, quattro in totale, furono indirizzate, le prime tre, a Ruggero re di Sicilia, la quarta all'abate Amedeo, incaricato da San Bernardo di trasmettere un suo messaggio agli ambasciatori del re di Sicilia, che si trovavano nel sud della Francia per accompagnare in Italia Elisabetta, figlia del conte di Champagne, promessa sposa al primogenito del re di Sicilia. Sebbene nessuna delle lettere sia datata, da alcuni riferimenti in esse contenute si è potuto stabilire con precisione la data di fondazione dell'abbazia della Sambucina, essa è avvenuta nel 1141 grazie ad una donazione fatta da Goffredo di Loritello, cugino del re Ruggero, conte di Catanzaro.

    L'abbazia di Santa Maria di Acquaformosa

    L'abbazia della Sambucina fu madre di numerose altre abbazie. Il Marchese da una piccola pergamena che porta la data del 1507 proveniente dalla Sambucina (per molti storici è un documento falso), ricava un elenco delle abbazie filiali che i monaci della Sambucina fondarono tra il 1157 e il 1220. Dalla pergamena si ricava che le abbazie figlie della Sambucina sono state . Tre di queste sono ubicate in Sicilia: la prima è Santa Maria di Novara, detta anche della Nucaria, in diocesi di Messina, fondata nel 1172; la seconda è l'abbazia di Santo Spirito a Palermo; la terza è quella di Santa Maria di Roccadia, presso Lentini, in diocesi di Siracusa. Una è ubicata in Lucania: Santa Maria del Sagittario, in diocesi di Anglona. Una nelle Puglie: Santa Maria del Galesio in diocesi di Taranto. Sei sono le filiali calabresi: Santa Maria di Corazzo nei pressi di Carlopoli; Santissima Trinità de Ligno Crucis in territorio di Corigliano; Sant'Angelo del Frigilo a Mesoraca; Santa Maria delle Terrate a Rocca di Neto; Santa Maria di Leucio o di Acquaformosa in diocesi di Cassano. Il Bedini, altro storico cistercense contemporaneo, invece, enumera solo sei filiazioni, le tre sorte in Sicilia, quella fondata in Puglia, e due in Calabria: Santa Maria di Santo Leucio di Acquaformosa e Sant'Angelo del Frigilo. Allo stato degli studi storici non è possibile affermare con precisione quante e quali furono le filiazioni della Sambucina, solo di alcune di esse la storia ci ha tramandato una memoria precisa. Sotto il governo di Luca Campano, che si protrasse dal 1193 al 1203, data della sua elezione alla cattedra arcivescovile di Cosenza, la comunità della Sambucina nel 1195 diede vita all'abbazia di Santa Maria di San Leucio o di Acquaformosa. Non sempre la data di fondazione del 1195 ha trovato tutti d'accordo. La maggior parte degli studiosi del fenomeno propende per il 1197, e su questa data insistono gli storici Cottineau, Manrique, Rodotà, Marchese e Bedini; lo storico dell'ordine cistercense Leopoldus Janauschek nel tomo I° dell' "Originum Cisterciensium" sposta la data al 1196; il Lubin, il Martire e l'Ughelli propendono per il 1195, altri per il 1193 ed infine padre Francesco Russo10per il 1191. Il rinvenimento degli "Excerpta a martirologio manuscripto coriaceo..." presso gli archivi vaticani, insieme ad un più approfondito esame storico dei fatti e dei personaggi del tempo, hanno contribuito a stabilire che la fondazione dell'abbazia di Acquaformosa risale al 1195. Nel documento sono elencati tutti coloro i quali hanno contribuito alla fondazione del monastero ed alla formazione della sua prima cospicua dote. Oltre ai già citati Ogerio e Basilia11, Signori di Brahalla, sono nominati Rinaldo o Rainaldo de Vasto o de Guasto, altro signore di Brahalla, Ugo, vescovo di Cassano, ed altri feudatari di Orsomarso, di Cassano, di Castrovillari, di Morano, di Galatro. Questi benefattori venivano introdotti nella comunità e chiamati confratelli, anche se poi effettivamente non vivevano nel monastero e non diventavano monaci, con un rituale che, nella formula impiegata a Santa Maria di Acquaformosa, ci è stato tramandato nello stesso documento: "Per la santa ed indivisibile Trinità e della beata Maria sempre Vergine e di tutti i santi da Dio posti come protettori in questo monastero e per tutti i servi di Dio dell'ordine nostro, ti concediamo di entrare nella nostra società, affinchè tu abbia parte nelle veglie e nei salmi, nelle preghiere, nelle elemosine, e in ogni beneficio che si faccia in questo santo monastero e in tutti i luoghi che appartengono all'ordine nostro, affinchè Dio visiti l'anima tua, ti conceda una vita migliore, ti aiuti in questa vita a fare quelle opere con vera penitenza, e buona confessione ti assolva dai peccati di questa vita, e Dio ponga l'anima tua in pace con i suoi santi, e ti doni la requie eterna, dove tu possa godere con noi per tutti i secoli dei secoli. Amen".

    Il patrimonio del monastero

    La forma architettonica del monastero ci è sconosciuta. Argomentando una tesi dello storico Caruso, non è da escludere che il monastero avesse forme comuni con quello della Sambucina e di San Giovanni in Fiore. In tutti i casi i monasteri cistercensi erano noti per la grande semplicità delle linee. I monaci non avevano nessuna preoccupazione di adornare le loro chiese ed i loro monasteri. Introdotta la volta a botte spezzata, non si preoccupavano di vestire la nudità che ne derivava, con forme architettoniche, qualunque esse fossero, per seguire fedelmente i concetti di San Bernardo circa la severità degli edifici ecclesistici. Se la forma del monastero era povera, il patrimonio dello stesso era ricco. Tutte le donazioni sono raccolte nel diploma di dotazione conservato nell'Archivio di Stato di Napoli (O, Sez. IV, N. 723, F. 192v)14. Oltre alla delimitazione dei confini delle proprietà terriere, nel diploma sono nominate due chiese che entrano a far parte del patrimonio dell'abbazia: la Chiesa di santa Maria del monte e la Chiesa di Santa Maria di San Leucio.Della Chiesa di Santa Maria di San Leucio nessun altro documento fa menzione: è ipotizzabile che l'abbazia sia stata edificata su una vecchia Chiesa, dalla quale prese il nome. Al contrario la Chiesa di Santa Maria del Monte si può ancora oggi ammirare. Così recita il diploma di dotazione: "Per gratuita e libera volontà doniamo e concediamo la Chiesa di Santa Maria di San Leucio con tutti i suoi tenimenti e le sue pertinenze. Questa tenuta ha tali confini ed è separata da queste particelle e proprietà: inizia dal Vallone Galatro sulla via pubblica che conduce da Lungro a San Donato e sale per il vallone al tenimento di Santa Maria del Monte la cui chiesa con ogni proprietà e pertinenza doniamo e in perpetuo concediamo alla stessa Chiesa di Santa Maria di Leucio. Il predetto tenimento è esteso fino a Serra di Costantino dov'è la miniera di ferro, che allo stesso monastero concediamo e doniamo: e discende discende dal fiume Grondo e poi fiume fiume fino alla via di Santo Donato. Quindi sale al casale di Belluri, e passa in mezzo al Farneto fino via del vallone di Realiva [Rialbo] e come discende l'acqua dal predetto vallone e porta ad un confine [di transito] a piedi alla selva Serra e corre fino alla strada che viene da Brahalla sotto la fine di Carbonello: e sale per predetta via e si congiunge alla via di Lungro: e come corre la predetta via per di sotto San Leone e perviene al Galatro dove inizia e termina il tenimento di questa chiesa che ti doniamo". Ma quella che, a dire del Marchese, fu l'abbazia più ricca delle filiali della Sambucina in un breve spazio di tempo si arricchi potentemente grazie a nuove e ricche donazioni. Il più munifico con l'abbazia di Acquaformosa fu senz'altro Federico II, re di Sicilia, Duca delle Puglie e Principe di Capua. Il sovrano illuminato, con un diploma dato a Palermo nel 1206, donò all'abate dei cistercensi del Monastero di Santa Maria di Acquaformosa l'isola di Dino e la Chiesa di San Pietro de Grasso in tenimento di Scalea e Mercurion. Con altro diploma del settembre 1206 lo stesso sovrano conferma ai cistercensi di Acquaformosa i territori e la miniera di ferro nelle vicinanze di Lungro in Calabria e tutte le altre donazioni fatte da Ogerio e Basilia, col diritto di libero pascolo e di una salma di sale ogni settimana dalle Saline di Brahalla Con diploma del luglio del 1224, Federico II°, che intanto poteva fregiarsi del titolo di imperatore, conferma la donazione della Chiesa di San Pietro de Grasso, indicando i confini del terreno alla stessa appartenente, e concede l'utilizzazione dell'acqua per i molini che si sarebbero costruiti . Grande fonte di ricchezza del monastero di Acquaformosa era la proprietà di numerose grance. Queste erano delle vere e proprie aziende agricole dove lavoravano monaci e conversi, tutte le figure economiche della produzione, dall'imprenditore al lavoratore manuale, erano alle dipendenze dell'abate. Secondo il Casalnuovo lo stesso imperatore nel 1227 concesse al monastero di Acquaformosa la grancia di San Leonardo di Sassone nei pressi di San Basile, di cui sono visibili ancora i ruderi. Il Russo enumera altre due grance nel territorio di Castrovillari che appartenevano all'abbazia di Acquaformosa: la prima aveva il titolo di San Giorgio ed è ricordata nella Platea vescovile del 1491. Se ne ignorano le vicende e l'ubicazione. La seconda è San Pietro in Frascineto, già monastero greco, che passò in epoca imprecisata alle dipendenze del cenobio cistercense. Le donazioni furono talmente cospicue che una carta del 1227, riportata dal Pratesi, ne segna i confini che andavano dal territorio dell'attuale scalo di Spezzano Albanese al territorio di Belvedere Marittimo. E' chiaro che non tutti i territori ricadenti tra queste due .linee di confine appartenevano all'abbazia, ciononostante il patrimonio accumulato dal cenobio acquaformositano era considerevole. La parte di territorio feudale più consistente, che apparteneva all'abbazia era quello compreso tra il torrente Galatro e i monti della Mula. Alcuni studi, non confortati, però, da documenti inconfutabili, sono giunti alla conclusione che anche il Santuario della Madonna del Pettoruto sia stato eretto su iniziativa dei monaci di Acquaformosa. Il Barillaro ne indica anche la data di erezione: il 1274, il Perrone afferma che fin dal 1226 il Santuario del Pettoruto era una grancia dell'abbazia di Acquaformosa. L'importanza che il monastero aveva assunto venne riconosciuta già nel 1204 dal papa Innocenzo III° che con bolla del 6 febbraio affiancò il suo abate a quello di Corazzo e al Vescovo di Martirano per l'esecuzione di un contratto di permuta tra l'Arcivescovo di Cosenza e l'abate dell'abbazia di San Giovanni in Fiore. Questo incarico è sintomatico del prestigio che in così pochi anni aveva assunto il cenobio di Acquaformosa.

    Biblioteca e reliquie

    Altro segno di ricchezza del monastero fu probabilmente la sua biblioteca. Nessuna traccia si è rinvenuta in tal senso, pur tuttavia, con ragionevole sicurezza, si può presupporre che il monastero di Acquaformosa, come gli altri monasteri cistercensi, aveva una biblioteca importante. Ai cistercensi spetta il merito di aver conservato e trascritto numerosi codici antichi. Tale attività, vietata in un primo tempo dallo stessa San Bernardo -- il quale ribadiva che "Pietro, Andrea, i figli di Zebedeo e i loro compagni non sono stati scelti in una scuola di retorica o di filosofia, ed è tuttavia per loro tramite che il Salvatore ha compiuto l'opera di salvezza" -- solo in un secondo momento fu intrapresa sistematicamente nei monasteri dell'ordine e contribuì ad arricchire le biblioteche delle stesse abbazie. Gabriele Barrio nel "De antiquitate et situ Calabriae" segnala un'altra grande ricchezza del monastero di Acquaformosa, le reliquie ivi custodite. Secondo il Barrio nel monastero di Acquaformosa erano custodite le reliquie della veste di Cristo e della Beata Vergine Maria, le reliquie degli Apostoli Tommaso, Giacomo, Simone, Giuda e Filippo, le reliquie di San Giovanni Battista e di tanti altri santi. Si presume che complessivamente il monastero di Acquformosa conservasse le reliquie di più di cento santi. Ogni reliquia era posta in un reliquiario. Solo diciasette reliquiari sono pervenuti fino ai giorni nostri e sono custoditi nella Chiesa della Concezione. Poche altre cose sono sfuggite alla razzia dei sacrileghi, ma di grande interesse storico, artistico e spirituale: la statua lignea della Madonna della Badia di autore ignoto, due dipinti raffiguranti due santi monaci, probabilmente San Benedetto e San Bernardo, e una grande tavola raffigurante l'Assunzione della Vergine, opera del pittore senese Marco Pino.

    La decadenza

    La decadenza del Monastero di Acquaformosa non fu un fatto casuale ed improvviso, ma si deve inserire in un contesto di degrado generale che, per quel che riguarda i Cistercensi, si acuirà con la morte di Luca Campano avvenuta nel 1222. Spesso gelosie o anche condotte poco edificanti furono oggetto di controversie tra monasteri cistercensi. Il Capitolo generale nel 1217 fu costretto a chiedere agli abati della Sambucina e di Corazzo di risolvere il contenzioso con l'abate della SS. Trinità de Ligno, che aveva denunciato l'abate di Acquaformosa per detenzione illegale di cose che appartenevano al suo monastero. Anche nel 1225 il Capitolo generale si dovette interessare dell'abate di Acquaformosa, che aveva presenziato all'elezione irregolare dell'abate del monastero di SS. Trinità de Ligno senza sollevare l'infrazione. A questi problemi interni si aggiunsero anche gli attacchi esterni: infatti, le ricchezze accumulate dall'abbazia di Acquaformosa facevano gola ai nobili locali, che cercarono in tutti i modi di appropriarsene. Nel 1269 dovette correre in aiuto del monastero di Acquaformosa il re Carlo D'Angiò. Il sovrano ordinò che il monastero non fosse molestato nel possesso dei casali di Callistro e di Galatro. Nel 1275 poi comandò che gli fossero versate le decime.. Nonostante tutto, l'abbazia di Acquaformosa conservò per almeno un altro cinquantennio una solida floridezza economica. Nel 1324 viene tassata per un'oncia d'oro, 23 tarì e 8 grani: questa tassa, abbastanza alta, fa supporre che il cenobio fosse ancora ricco. Un increscioso avvenimento accadde tra il 1352 e il 1353. Lo stesso papa Innocenzo VI° dovette incaricare il vescovo di Cassano di perseguire Nicola di Altomonte, monaco cistercense di Acquaformosa, il quale falsificando alcuni documenti, si fece affidare l'amministrazione dei beni dell'abbazia. Nel 1410 il re Ladislao ordinò la restituzione al monastero dei beni sottratti durante le recenti guerre. Con diploma del 5 aprile 1426 il re Ludovico III° conferma all'abate di allora, Pietro de Matteo, le concessioni fatte da Federico II° . Ancora nel 1426 il re Ludovico III° conferma la concessione di una salma di sale di 8 tomoli dalla salina di Altomonte, con una pensione di 12 once annue. Lo stesso re Ferdinando nel 1475 ordinò la restituzione dei beni all'abate dei cistercensi di Acquaformosa, in conformità alla Bolla di Sisto IV° del 3 maggio 1475.

    La commenda

    Nel 1490 l'abbazia veniva concessa in commenda. L'istituto della commenda ecclesiastica, che originariamente era stato usato con molta cautela per sopperire temporaneamente alla vacanza di titolari di diocesi o di altri benefici ecclesiastici, andò sempre più diffondendosi con finalità diverse da quelle originarie. Divenne, infatti, un modo per garantire ad alti prelati il governo e, spesso, lo sfruttamento, dei patrimoni dei monasteri. La commenda per molti monasteri fu un'autentica iattura in quanto gli abati commendatari lungi dall'aver interesse per il bene comune si preoccuparono di sfruttare al meglio le laute prebende beneficiarie. Per il monastero di Acquaformosa l'introduzione della commenda non provocò più danni di quanti già non avessero causato i rapaci signorotti locali.Per sopperire alla vacanza dell'abate, il monastero di Acquaformosa per la prima volta fu concesso in commenda, con Bolla di Gregorio XII°, del 1° giugno 1408 a Marino del Tocco, vescovo di Teramo, al quale fu confermata con bolla del 31 maggio 1412. Ma si trattò di un provvedimento provvisorio che cessò con la morte del commendatario. Alla morte di Francesco di Carraria, ultimo abate regolare, il monastero fu definitivamente concesso in commenda. Commendatario fu nominato il chierico napoletano Carlo de Cioffis, che ne fu provvisto con Bolla del 3 aprile 1490, resa esecutiva dal Re Ferrante, con lettera del 6 maggio al Vescovo di Cassano e al Luogotenente di Calabria, Luigi Lull.

    L' abbazia nei secoli XVI - XVII - XVIII

    Nel 1514 il re Cattolico ordina al luogotenente di stanza in Calabria di difendere l'abate del monastero di Acquaformosa gravemente provato dall'ultima guerra. Addirittura nel 1543 papa Paolo III° ordina al vescovo di Rieti di minacciare e infliggere la scomunica ai detentori dei beni del monastero di Acquaformosa . La decadenza era ormai inarrestabile, una ricognizione del monaco Boucherat Nicolaus, procuratore generale dell'ordine cistercense, del 1561 traccia con chiari tratti la situazione del cenobio di Acquaformosa: "Ormai i suoi edifici sono in pessime condizioni ed in stato di avanzato degrado, la Chiesa è priva di tabernacolo, vi vivono a stento sei monaci che, due mesi dopo la visita, se ne allontanarono ". Ancor più degradata è la situazione che descrive Cornelius Pelusio Parisio, monaco cistercense, presidente dell'omonima congregazione di Calabria e di Lucania, in un resoconto che fece durante la sua visita alle abbazie cistercensi del Regno di Napoli avvenuta tra il 1597 e il 1599. Il Pelusio dell'abbazia di Acquaformosa traccia due descrizioni, l'una positiva, che riguarda la natura del luogo di ubicazione del cenobio, "eretto sulla cresta di un contrafforte tra le valli del Fiumicello e del Grondo, risponde perfettamente al significato del nome", l'altra desolante, che riguarda la destinazione degli edifici dell'abbazia che erano abitati da privati e, addirittura, adibiti ad alcove per prostitute. Una descrizione dell'abbazia del 1650 ad opera di Marcello Terracina ci mostra una certa ripresa dell'attività monastica. Gli edifici sono mantenuti con decoro. Il Terracina riporta una descrizione architettonica dell'abbazia di estremo interesse. Ad Acquaformosa sembra si delinei l'immagine della Domus abatialis, che pare essere stata innovata in forme cinquecentesche. Contigua al "monastero quadrangolare unito con la chiesa", viene descritta come "un palazzo grande con stanze dodici di sopra e di sotto altre sette, ed una loggiata con spazio grande" .La ripresa di vitalità del monastero coincise con l'adesione, avvenuta nel 1633, alla congregazione che riuniva tutti i monasteri cistercensi della Calabria e della Lucania. Questa congregazione fondata nel 1570 fu riformata ed approvata nel 1632 dal papa Urbano VIII e prese il nome di "Beatae Mariae Virginie totius Regni Neapolitani". All'interno della Congregazione il monastero di Acquaformosa assunse grande importanza tant'è che quattro presidenti di tale congregazione furono monaci del cenobio acquaformositano: Cesare Ricciuto, Fancesco Longo, Domenico Buffune e Matteo Brancaccio .

    La soppressione e la fine

    La ripresa, però, fu effimera e non riuscì ad invertire la tendenza che inesorabilmente stava portando alla rovina il monastero cistercense. L'avidità dei signorotti locali nello spazio di un secolo ebbe la meglio, riuscirono a trafugare persino le pietre dei muri del monastero. In un disegno dell'inizio del 1800 vengono tratteggiate solo le rovine dell'abbazia un tempo così fiorente. Infine la sciagurata politica del dominatore francese ne decretò la fine giuridica. In questo periodo 1100 monasteri e conventi presenti nel Regno di Napoli furono soppressi. Il monastero di Acquaformosa subì tale sorte con il decreto del 13 febbraio 1807. Il giurista e storico locale Vincenzo Capparelli così concludeva la sua ricerca sull'antico cenobio: E come tutti i monasteri, anche di quello dei Cisterciensi di Acquaformosa s'impossessò la Potestà civile, confiscandone persino le campane, giusta il documento autentico che qui riproduco: "Oggi lì 22 aprile 1813 in Acquaformosa: Noi Leandro Capparelli Sindaco del Comune, Domenico Rossano e Padre Paolo Cirsosimo incaricato dei demanii dal Signor intendente della Provincia, dietro la domanda ricevuta dalla Sottodirezione d'Artiglieria sulle calabrie dell'8 agosto 1810 e altra del 19 ottobre 1811 relative alla devoluzione delle Campane al Regio arsenale di Artiglieria di terra, ci siamo conferiti al luogo detto Monastero dei Cistercensi del comune suddetto, e ci abbiamo fatta la consegna delle Campane e ferro". Ed è alla data del 22 aprile 1813 che si può associare la fine del monastero di Santa Maria di San Leucio o di Acquaformosa.

    Il monachesimo interessò il cristianesimo sin dalle sue origini. Durante i primi secoli dell'era cristiana questo stile di vita era praticato da pochi individui, divenne un fenomeno importante a partire dal IV secolo. Infatti, Costantino, divenuto unico imperatore romano nel 324, pose fine alle feroci persecuzioni contro i cristiani, si convertì e diede il riconoscimento ufficiale al cristianesimo . Da quel momento il cristianesimo non soltanto era tollerato, ma era colmato di privilegi; il popolo si convertiva in massa, spesso superficialmente, i potenti si fecero cristiani a imitazione dell'imperatore più che per convinzione personale; molti ecclesiastici fecero carriera, interessandosi più del potere politico che di Dio. All'epoca delle persecuzioni il martirio si presentava come la grazia suprema. Da Costantino in poi ciò non era più possibile. In questo contesto la "fuga dal mondo" appare come la condizione migliore per accedere alla vita perfetta. Così San Girolamo assimila al martirio di sangue il "martirio quotidiano" di una vita di rinuncia e di mortificazione per amore di Dio. Per fuggire l'avvilimento spirituale di un ambiente di tiepidezza molti uomini hanno ricercato, per amore di Cristo, la bruciante solitudine. La vita solitaria, il digiuno, la meditazione, la preghiera e l'imitazione delle virtù di Cristo conducono al distacco dal peccato ed alla perfezione interiore. Altro elemento fondamentale del monachesimo fu l'esercizio del silenzio. Soprattutto con il silenzio si può sentire Dio. A tal proposito si racconta che un giorno ad un monaco fu chiesto di dire qualcosa di edificante ad un pellegrino di rango. "Se il pellegrino non è stato edificato dal mio silenzio, tanto meno lo sarà dalle mie parole", fu la sua risposta. Questi asceti furono chiamati monaci (dal greco monos, solo), anacoreti (dal greco anachorein, ritirarsi), eremiti (dal greco eremos, deserto). Il rappresentante più noto del monachesimo delle origini, a carattere essenzialmente individuale, fu senz'altro Sant'Antonio Abate, vissuto tra il III ed il IV secolo, e al quale la tradizione ha conferito l'appellativo di "padre dei monaci". Contemporaneamente al monachesimo eremitico, nacque anche il monachesimo cenobitico (dal greco coinos bios = vita comune) . Il monachesimo cenobitico fu qualcosa di completamente diverso da quello eremitico quanto a struttura e ad organizzazione. Gli eremiti vivevano nella maggior parte dei casi in solitudine, talvolta però succedeva che qualche eremita, in odore di santità, veniva raggiunto da altri eremiti con i quali condivideva alcuni momenti del suo tempo. Queste comunità di eremiti erano disorganizzate e basate sullo spontaneismo. Al contrario, il monachesimo cenobitico ebbe fin dalle origini una propria struttura accuratamente studiata. I monaci conducevano vita comune ispirandosi ad una "regola" che stabiliva le norme per la preghiera, la penitenza, la disciplina, l'abito, il lavoro. Alla castità e alla povertà, che facevano parte del patrimonio dell'esperienza eremitica, i cenobiti aggiunsero anche l'obbedienza come condizione della stessa vita comune. L' avvento del monachesimo cenobitico è legato al nome di san Pacomio, mentre il suo progresso e la sua affermazione sono legati a quello di san Basilio. Soprattutto il monachesimo cenobitico ben presto giunse anche in Europa. In Italia il personaggio più importante del cenobitismo fu San Benedetto da Norcia. Egli nacque nel piccolo borgoumbro tra il 480 e il 490: ancor giovane si ritirò in una grotta vicino a Subiaco, nel Lazio, ove visse per tre anni in completa solitudine. Successivamente, visto che erano numerose le persone che, attratte dal suo stile di vita, gli chiedevano di vivere con lui, decise di tentare un' esperienza di vita monastica in comune e organizzata. Tale sua idea trovò realizzazione nel monastero di Montecassino, da lui fondato nel 529. Il primo problema affrontato da San Benedetto fu quello di stabilire una serie di norme a cui tutti i monaci dovevano attenersi: nacque così la "Regola" di San Benedetto. Questa Regola, che la tradizione ha sintetizzato nel motto "Ora et labora" (Prega e lavora), si basava sui principi evangelici della carità e della fraternità. San Benedetto stabilì, inoltre, che i monaci dovevano vivere in comune una medesima forma di vita sotto un unico superiore, l'abate, che rappresentava il Cristo . San Benedetto non tendeva a formare asceti, che nella solitudine ricercavano e trovavano la perfezione, bensì egli mirava a creare una comunità regolata da una disciplina monastica attuabile anche da persone comuni. L'abbazia benedettina diventa un modello di società ideale in mezzo al turbamento dell'alto medioevo e contemporaneamente la culla di tante oasi di carità e di pace in Europa. Su tale modello furono fondati molti altri monasteri tra cui Camaldoli e Vallombrosa in Italia, Fulda in Germania, San Gallo in Svizzera, Cluny in Francia.Una menzione particolare merita il monastero di Cluny che fu fondato tra il 909 e il 910 in Francia dal duca di Aquitania e conte di Macon, Guglielmo il Pio. Ispirandosi alla Regola benedettina il monastero di Cluny diede vita ad un nuovo ordine benedettino riformato, che si impone in tutta l'Europa; alla fine del secolo X° si contano 1200 monasteri che si ispirano al monastero cluniacense. Grazie alla spiccata personalità di abati quali Oddone, che guidò l'ordine tra il 927 e il 942, e Maiolo, che ne fu guida tra il 963 e il 994, Cluny divenne punto di riferimento del cristianesimo in occidente6 . Il Cardinale Pier Damiani, che visitò Cluny nel 1063, descrisse con entusiasmo e commozione il monastero e la vita che si svolgeva al suo interno. Dalla sua relazione si legge che il monastero si presentava austero malgrado la grandezza e che i monaci erano sempre dediti alla preghiera, alla meditazione e al lavoro . Con il passare del tempo, però, qualcosa cambiò all'interno del monastero; innanzitutto vi penetrarono germi che mal si conciliano con la vita monastica: la ricchezza e le lotte di potere fra i monaci che ambivano a diventare abati. Erano, questi, sintomi inquietanti: Cluny non ebbe più la stabilità di una volta. L'ordine, arricchendosi e sfoggiando un lusso poco conforme alla Regola benedettina a cui si ispirava, perdette poco a poco i caratteri che gli avevano assicurato nella società medioevale un posto particolare. Si comprende, quindi, come le persone stanche della vita nel mondo cercarono rifugio altrove e non più nelle abbazie cluniacensi. Agli inizi del XII° secolo il declino dell'ordine cluniacense coincise con il conseguente proliferare di altri ordini monastici. Il sud dell'Italia fin dalla metà del X secolo divenne un centro propulsivo di spiritualità monastica. Una vera tebaide, affermano gli storici. In questo periodo nacque a Rossano San Nilo che nel 1004 fondò il Monastero di Grottaferrata. Il Santo calabrese diventò punto di riferimento di quanti, staccandosi dal mondo, volevano dedicarsi completamente a Dio. Le comunità fondate da San Nilo contemperavano lo stile di vita cenobitico ed eremitico. I monasteri erano formati da cellette per uno o pochi monaci, i quali sovente si ritiravano a vita completamente solitaria. Ci fu allora anche un rifiorire di ordini religiosi che tentavano di restaurare i canoni propri del monachesimo primitivo. Alcuni di questi nuovi ordini, accanto alla preghiera, alla contemplazione e al lavoro intellettuale, accostarono il lavoro manuale, in particolare il lavoro nei campi, che stanca il corpo e lo mortifica. L'ordine che più di ogni altro ha incarnato questa nuova apertura verso il monachesimo eremitico fu quello dei Certosini di San Brunone di Colonia, canonico di Reims, che fondò numerosi monasteri, chiamati certose, tra cui quella di Serra San Bruno in Calabria, dove il Santo fondatore morì nel 1101. Durante il governo dell'abate commendatario Carlo Cioffi, giunse nei territori del monastero di Santa Maria di Acquaformosa un gruppo di profughi albanesi, fuggiti dalla loro patria per sottrarsi al dominio dell'invasore turco. Questi albanesi non erano i soli che in quel tempo vagavano per le terre del Regno di Napoli, insieme a loro erano fuggiti dall'Albania intere comunità; prima di loro altri avevano raggiunto le coste italiche, dopo di loro altri emigreranno. Tutti gli albanesi ambivano a raggiungere un'unica meta, la libertà .

    L'Albania nel secolo XV

    L'Albania del XV secolo costituiva strategicamente una regione cuscinetto che la proponeva come teatro privilegiato degli scontri e delle tensioni tra i principati minori della penisola balcanica e, soprattutto, ne faceva una zona esposta a quella permanente contesa per l'egemonia, che vedeva antagonisti storici l'impero turco e l'insieme degli stati cristiani. I turchi, chiamati anche Ottomani, in onore del loro primo grande condottiero Othaman, erano originari dell'altopiano di Erzerum e, avendo ottenuto il permesso dal sultano d'Iconio, si stabilirono in un piccolo territorio sulle rive del Sangario, nella Turchia settentrionale. In cambio di ciò combattevano, come mercenari, per il sultano. Quando verso la fine del XIII secolo il sultanato cadde in mano ai mongoli, i turchi proclamarono la loro indipendenza e sovranità. Di quel piccolo territorio fecero la base di partenza per le loro conquiste. In breve tempo arrivarono sulle sponde del Mar Nero e, quindi, attraverso l'Ellesponto entrarono in contatto con le popolazioni dell'Europa sudorientale. Allora l'Albania, come le altre regioni contigue, era divisa in piccoli feudi: ciò facilitava non poco la progressiva avanzata dei turchi. Infatti non riuscendo a coalizzarsi, i principi dei feudi albanesi entravano in guerra solo quando il nemico minacciava direttamente i loro confini. La maggior parte del territorio albanese era governato da grandi e nobili famiglie i Dukagin, i Thopia, i Balcha, gli Arianiti, i Musachi, gli Spata ed infine i Castriota. Questi ultimi avevano la loro Capitale nella città di Croia, altri centri importanti appartenenti al Principato erano Petrella, Petralba , Stellusio, Sfetigrado. Tra la fine del XIV secolo e la prima metà del XV a capo della famiglia dei Castriota c'era Giovanni, che da sua moglie Voisava ebbe 9 figli, quattro maschi e cinque femmine: Giorgio nacque a Mati tra il 1404 e il 14052. Anche Giovanni Castriota, come tutti i feudatari albanesi, fu protagonista di lunghe e sanguinose lotte contro i turchi. Durante una delle guerre Giovanni Castriota fu costretto dagli invasori a cedere alcune terre del suo principato e a dare in ostaggio i suoi quattro figli maschi.

    Skander-bey

    Giorgio ed i suoi fratelli furono condotti alla corte di Murad II ed educati alla religione musulmana. L'impegno e le attitudini militari del giovane Giorgio attirarono le simpatie del sultano che lo fece educare a corte, come un principe, e gli diede il nome di Skander-bey, principe Alessandro. Durante la sua permanenza ad Adrianopoli, capitale dell'impero turco, non si limitò a diventare un forte guerriero e a studiare strategia e tattica militare sui libri, ma studiò anche le lingue e imparò a parlare correntemente, oltre l'albanese ed il turco, anche l'italiano, il greco e l'arabo A diciasette anni era già ufficiale dell'esercito turco. A venti comandava un corpo di cavalleria di circa 5.000 uomini. Durante questo periodo sembra che Skander-bey non nutrisse una particolare attenzione per il popolo albanese. Niente fa pensare che abbia vissuto con disagio la sua lontananza dall'Albania, anzi la sua rapida carriera militare fa pensare il contrario. Così mentre il padre combatteva in patria contro i turchi, Skander-bey li serviva combattendo nell'Anatolia a capo del formidabile ed organizzatissimo gruppo scelto dei Giannizzeri. La ribellione di Skander-bey non fu improvvisa, nè avvenne senza contraddizioni.

    Skander-bey era un guerriero e come tale conosceva e rispettava le regole della guerra. Se gli albanesi combattevano contro i turchi era fatale che molti di loro dovessero morire. Ciò che fece maturare nel giovane Castriota la decisione di ribellarsi a Murad II fu un fatto che toccò direttamente la sua famiglia. Accadde che dopo la morte di suo padre, avvenuta tra il 1442 e il 1443 i superstiti possedimenti dei Castriota furono affidati ad Hassan- bey. La madre di Skander-bey, fu esiliata insieme a sua figlia Mamiza, e morì lontano dalla patria senza aver mai rivisto il figlio. Questo fece mutare la condotta del guerriero. Il suo desiderio di vendetta fu frenato dal calcolo militare: egli aveva ben chiaro in mente che porsi contro Murad II significava combattere fino alla fine, fino alla morte di uno dei due. L'occasione propizia si presentò nel 1443 quando Murad II affidò a Skander-bey e a Cara-bey un esercito di 20.000 uomini per combattere contro l'esercito ungherese di Giovanni Hunyadi. Durante la battaglia che si svolse vicino a Nish, il condottiero ungherese inflisse una dura sconfitta all'esercito turco. Skander-bey, circondato da un manipolo di fidati guerrieri, anch'essi dati in ostaggio ai turchi, non reagì alla sconfitta, anzi si diresse verso l'Albania, verso i feudi dei Castriota. Su questo atteggiamento di Skander-bey gli storici hanno avanzato numerose ipotesi, secondo alcuni l'albanese aveva preso accordi precedentemente con Hunyadi, secondo altri semplicemente ordinò ai suoi uomini di non combattere. In tutte e due le ipotesi c'è da supporre che il condottiero aveva studiato ogni mossa. Infatti, dopo la battaglia il Castriota mise in pratica la seconda parte del piano. Si fece rilasciare da un guardasigilli di Murad II un ordine per il governatore di Croia affinchè gli cedesse il comando della città. E' probabile che ottenne l'ordine con l'astuzia, senza violenza, ma è certo che per evitare qualsiasi intralcio uccise il dignitario turco. Con l'ordine si diresse verso la sua patria. Il piano messo a fuoco presentava una sola incognita: la reazione del popolo albanese. La paura del guerriero si trasformò in gioia quando venne accolto con grande entusiasmo dagli abitanti di Dibra. Queste popolazioni intuirono che, Skander-bey, colui che era stato uno dei più grandi capi dei loro nemici, poteva diventare Scanderbeg, il loro condottiero. Inizia l'epopea di un condottiero che si meritò la fiducia dei papi del suo tempo, i quali di volta in volta lo definirono "principe cattolico", "difensore della fede", "atleta di Cristo", e che gli stessi sultani turchi definirono "la spada e lo scudo dei cristiani".

    Scanderbeg

    Trecento dibrani, i più forti, seguirono Scanderbeg per la presa di Croia. Il governatore della città passò subito le consegne a Scanderbeg, credendolo ancora ufficiale dell'esercito turco. Appena dentro la città, egli fece entrare anche gli albanesi che lo seguivano dalla battaglia di Nish e i dibrani che lo avevano seguito. Presi alla sprovvista i turchi furono passati per le armi, Croia ritornò nelle mani dei Castriota. Le gesta del condottiero diedero maggior vigore agli albanesi, che mai si erano arresi ai turchi. Riunito un esercito con l'aiuto dei feudatari albanesi, tra cui Gino Musachio, Ghioca e Giorgio Balcha, Scanderbeg riconquistò le fortezze che un tempo erano appartenute alla sua famiglia: Petrella, Petralba, Stellusio e Sfetigrado. Una volta rientrato nel possesso del suo feudo Scanderbeg iniziò una vasta azione di riorganizzazione civile, ripristinando il vecchio ordinamento, e militare, addestrando un piccolo esercito. I successi nelle prime battaglie, vinte anche perchè i turchi furono colti di sorpresa nel vedere Scanderbeg combattere contro di loro, non crearono eccessiva euforia nel condottiero; che conosceva fin troppo bene l'esercito turco, per pensare di affrontarlo da solo, con i pochi uomini del suo principato. Fu per questo che pensò ad una coalizione di tutto il popolo albanese. Non c'era tempo da perdere, perchè nella primavera del 1444 si sparse la voce che Murad II si stava preparando per l'attacco definitivo all'Albania. Conosciuta questa notizia Scanderbeg decise di accelerare i tempi e, superando pregiudizi e odi secolari, riuscì a riunire tutti i più importanti regnanti d'Albania ad Alassio -- allora possedimento di Venezia che era disposta a favorire qualsiasi azione capace di combattere i turchi -- il 1° marzo del 1444. Tutti i principi appoggiarono la proposta di costituire una coalizione di tutto il popolo albanese, e si assunsero l'onere di contribuire alla riuscita dell'impresa con denaro e con uomini. Nacque la Lega dei principi albanesi a capo della quale fu chiamato Scanderbeg a cui venne dato anche il comando dell'esercito. Scanderbeg si dedicò con slancio al suo nuovo incarico, ed in quest'opera rivelò tutto il suo estro militare. Come prima iniziativa fece un censimento in tutta l'Albania per sapere quanti fossero gli uomini adatti alla guerra, dopodichè creò un esercito nazionale, senza l'ausilio di mercenari.

    La guerra contro i turchi

    La prima battaglia tra gli albanesi di Scanderbeg e i turchi si svolse a Torviollo il 29 giugno 1444. Il piano strategico messo a punto dal condottiero albanese era perfetto. Le sorti dello scontro, però, erano incerte per almeno due motivi. Il primo motivo riguardava l'esercito albanese, che per la prima volta si cimentava in una battaglia campale, il secondo motivo di preoccupazione era dato dalla pericolosa tendenza delle prime linee albanesi di non ritirarsi mai, neanche se la tattica lo richiedeva. La tensione scomparve quando, al cospetto dei turchi comandati da Alì Pascià, gli albanesi eseguirono perfettamente le consegne. All'esercito turco, composto da circa 25.000 uomini, furono inflitte gravi perdite, 8.000 morirono in battaglia, 2.000 furono fatti prigionieri . L'eco della vittoria si sparse per tutta l'Europa, molti regnanti tirarono un sospiro di sollievo. L'Albania, insieme all' Ungheria di re Ladislao e del condottiero Hunyadi, diventò l'estremo baluardo contro i turchi. La vittoria ebbe effetti opposti tra i principi albanesi, che assecondarono maggiormente Scanderbeg, e tra i turchi, che cominciarono a temere l'esercito albanese. Murad II che conosceva molto bene il valore e l'ingegno di Scanderbeg, facendo leva anche sull'affetto che un tempo l'albanese nutriva nei suoi confronti, gli offri la pace, insieme ai territori che un tempo appartenevano ai Castriota e che ora erano di nuovo in mano sua. Scanderbeg non solo non accettò l'offerta, ma addirittura invitò Murad II ad abbandonare la religione musulmana e ad abbracciare quella cristiana. Appena l'ambasciatore turco ripartì, Scanderbeg radunò i suoi soldati e confidò loro che, dopo aver letto quella lettera, Murad II° avrebbe rivolto contro l'Albania forze ancora maggiori. Così avvenne: per il popolo albanese iniziarono decenni di lotte contro un nemico che poteva disporre di un esercito sempre più numeroso. Numerose sono le battaglie vinte dagli albanesi, pochissime le defezioni. Durante questa guerra interminabile Scanderbeg cercò sempre di mantenere buoni rapporti con l'occidente, soprattutto con Venezia, lo Stato pontifico e il Regno di Napoli.

    Scanderbeg nel Regno di Napoli

    Grande alleato di Scanderbeg fu Alfonso V d'Aragona, re di Napoli. L'amicizia che li legava si basava su una solida alleanza politica e militare. Quando il re mori nel 1458 il suo regno fu diviso tra suo figlio Ferrante, che assunse il trono del Regno di Napoli , e suo fratello, il re di Navarra, che prese possesso della Sicilia. Ma il passaggio non fu indolore: il Regno di Napoli era appetito dallo stesso sovrano di Navarra e dal papa Callisto III, che voleva donarlo a suo nipote Pietro Luigi Borgia. A questi si aggiunsero altri pretendenti dall'Italia e dalla vicina Francia. Neanche la morte di Callisto III e la salita al soglio pontificio di Pio II, che non nutriva nessun interesse per il Regno di Napoli, fu sufficiente ad attenuare la tensione. Le cose precipitarono quando marciò sul Regno di Napoli Giovanni d'Angiò. Re Ferrante chiese aiuto al papa ed agli Sforza di Milano. Ma l'esercito papale fu sconfitto dagli angioini. Lo stesso Re Ferrante fu chiuso in assedio a Barletta. Quando tutto sembrava perduto, al re partenopeo giunse un aiuto insperato: Scanderbeg. Era il 1460 e l'Albania godeva di un momento di relativa calma, susseguente al trattato di pace stipulato fra Maometto II, figlio e successore di Murad II, e Scanderbeg. Sicuro che il suo popolo non correva pericoli immediati, il condottiero albanese con un esercito scelto salpò alla volta dell'Italia. Quando giunse a Barletta gli assedianti arretrarono la linea di sbarramento e permisero al re Ferrante di riprendere la lotta. I due contendenti si scontrarono ad Orsara, dove gli eserciti di re Ferrante e di Scanderbeg sconfissero quello angioino. In segno di riconoscenza re Ferrante concesse a Scanderbeg i feudi di Monte Sant'Angelo e di San Giovanni Rotondo.

    Riprende la guerra contro i turchi

    Intanto Maometto II aveva ripreso con maggior vigore la sua offensiva contro l'Occidente. Conquistò tutte le isole del Mediterraneo Orientale, la Bosnia, e minacciava direttamente Venezia. Papa Pio II, temendo l'invasione islamica, dapprima tentò di convertire il sultano, poi, una volta fallita l'azione, decise di organizzare una crociata per difendere il cristianesimo dall'invasione musulmana. I cardini di questa crociata furono nuovamente l'Albania e l'Ungheria. Scanderbeg, anche contro il volere dei suoi principi, riaprì le ostilità contro Maometto II, temendo che il sultano, dopo aver conquistato le altre regioni dei balcani, avrebbe rivolto le sue forze contro l'Albania. Le azioni di guerra non tardarono a riprendere e ad Ocrida si consumò una nuova dura sconfitta per l'impero turco. La nuova crociata sembrava essere nata sotto i migliori auspici. Ma l'euforia durò poco, infatti il 14 agosto 1464 morì papa Pio II, e con lui svanì anche il progetto della grande crociata. Ormai l'idea di una guerra di religione non attirava più i regnanti europei, i quali volevano bensì combattere i turchi, ma solo per necessità politiche e mercantili. Scanderbeg rimase nuovamente solo contro il suo nemico; Maometto II organizzò nuove offensive contro l'odiato albanese. La prima fu condotta da Balaban, un albanese figlio di un servo del padre di Scanderbeg. Anche lui, un tempo dato in ostaggio ai turchi, divenne il più grande generale di Maometto II. Alla testa di un esercito di 18.000 uomini si scontrò con l'esercito albanese nella pianura di Valcalla. I 5.000 uomini di Scanderbeg inflissero una nuova sconfitta all'esercito nemico, ma durante questa battaglia accadde un fatto da sempre temuto da Scanderbeg: infatti la prima linea del suo esercito, non rispettando gli ordini, inseguì l'esercito di Balaban e cadde in una trappola da questi tesa. Furono fatti prigionieri alcuni fra i più valorosi guerrieri d'Albania, mai vittoria, per Scanderbeg, fu tanto triste. Per tentare di liberare i suoi valorosi soldati, Scanderbeg inviò un ambasciatore a Costantinopoli, che era stata conquistata da Maometto II nel 1453, e poi diventata la capitale dell'impero turco, per offrire qualsiasi cifra in cambio della liberazione dei prigionieri. Maometto II non accettò, anzi li fece torturare e uccidere. La notizia giunse in Albania e sconvolse tutto il popolo. Scanderbeg in preda all'ira uccise con le sue mani tutti i prigionieri turchi, decapitandoli con la sua spada. Intanto Balaban, sperando di vincere l'esercito albanese, organizzò un'altra invasione dell'Albania, e poi un'altra ancora, ma sempre con gli stessi risultati negativi. Dopo queste sconfitte, lo stesso Maometto II si mise a capo del suo potente esercito. Non esistono notizie storiche certe sulla consistenza numerica dell'esercito turco: qualcuno parla di almeno 150.000 uomini, altri di 200.000 e anche di 300.000 uomini. Il piano di Maometto era semplice e preciso: espugnare Croia. Scanderbeg che aveva previsto ciò, mise a punto una contromossa altrettanto semplice e dai risultati molto efficaci. Divise i suoi uomini in due reparti, il primo di 4.000 unità, con a capo Tanusio Thopia, venne schierato all'interno delle mura di Croia con il compito di difendere la città. Scanderbeg con un altro drappello di valorosi si appostò sul vicino monte Tomorischta con il compito di colpire l'esercito di Maometto II con rapide ed improvvise azioni di guerriglia. Il piano di Scanderbeg funzionò perfettamente. Maometto II si rese conto della difficoltà di prendere Croia con un attacco diretto, ordinò, quindi, a Balaban di cingere d'assedio la città con metà dell'esercito, mentre lui stesso si mise alla testa degli altri uomini: avrebbe portato la guerra nelle altre regioni albanesi. Così avvenne e Maometto II procurò danni e lutti ovunque passò. Intanto Balaban cingeva d'assedio Croia in modo ferreo. Tutt'intorno la città costruì fortini, trincee e fortificazioni di ogni tipo. Scanderbeg dal canto suo, visto come si erano organizzati gli assedianti, reputò non vantaggiosi gli attacchi che tanti suoi successi gli avevano procurato. Una battaglia in campo aperto era da escludere, perchè egli non disponeva di un esercito adeguato. L'unica via di salvezza potevano essere aiuti che sarebbero dovuti venire dai paesi amici dell'Albania. Fu così che con alcuni amici fidati partì per Roma. Arrivò nella città eterna nel dicembre del 1466. Papa Paolo II gli donò un elmo ed una spada benedetta e 3.000 ducati; altri aiuti gli vennero da Napoli e da Venezia. Tornò in Albania e riuscì a formare un esercito di 13.000 uomini, sufficienti per scontrarsi con i turchi. Lo scontro fu cruento, i turchi colti di sorpresa furono sbaragliati; lo stesso Balaban trovò la morte. Reso ancor più furioso da questi ultimi avvenimenti, Maometto II nella primavera del 1467 ancora una volta si pose a capo di un grande esercito e mosse verso l'Albania. Giunse fino a Croia praticamente senza alcuna resistenza, ma qui trovò l'accoglienza solita; demoralizzato, fece ritorno a Costantinopoli. Approfittando del ritiro di Maometto, Scanderbeg liberò tutti i territori ancora in mano al nemico. Temendo nuovi attacchi, Scanderbeg chiese un nuovo incontro di tutti i principi albanesi, nuovamente ad Alessio, per rinvigorire la Lega dei Principi. Ma non riuscì nel suo intento, perchè si ammalò gravemente. Il grande guerriero che aveva vinto mille battaglie contro i turchi, nulla potè contro la malattia, probabilmente la malaria. Intanto i turchi nell'inverno tra il 1467 e il 1468 sferrarono un nuovo attacco a Croia. Scanderbeg ebbe un ultimo sussulto, volle la sua armatura, ma, appena indossatala cadde a terra privo di forze. Il 17 gennaio 1468 morì l'eroe albanese, ma anche l'eroe di tutto l'Occidente, il braccio armato del cattolicesimo, che contribui ad impedire la colonizzazione islamica dell'Europa. Anche dopo la morte del loro condottiero gli albanesi resistettero al turco per oltre un decennio, poi, quando il nemico prese il sopravvento, molti albanesi, piuttosto che cadere prigionieri nelle mani dei turchi, lasciarono la loro patria per cercare ospitalità nelle vicine terre italiane.

    Le emigrazioni verso l'Italia

    Le emigrazioni che portarono gli albanesi dalla loro terra verso l'Italia furono numerose. La ricerca storica sull'argomento non permette di affermare con certezza le date dei vari spostamenti e delle primissime vicende degli esuli albanesi in terra italiana. In base ai documenti di cui si dispone, si sa che passaggi di gruppi sporadici hanno avuto luogo anche prima dell'invasione turca, e precisamente nel 1272, nel 1388 e nel 1393 . La tradizione storiografica concorda nel datare a metà del secolo XV l'inizio di consistenti flussi migratori dai Balcani verso l'Italia e soprattutto verso le provincie del Regno di Napoli. E' probabile la presenza di nuclei armati albanesi, assoldati dal re Alfonso per controllare le sommosse del rinnovato Regno di Napoli, sin dal 1444. Nel 1448 Alfonso I d'Aragona, re di Napoli, volendo domare le rivolte scoppiate in Calabria, nel crotonese, ad opera del marchese Antonio Centelles, chiamò in aiuto i suoi alleati albanesi "che avevano fama di valore" . Questi, con a capo il capitano di ventura Demetrio Reres, giunsero in Italia ed in breve tempo domarono la rivolta ripristinando la signoria del re di Napoli su quelle contrade. Come segno di riconoscenza per l'aiuto prestato, Demetrio Reres fu nominato governatore di quella regione. Qui si stanziarono le truppe albanesi che fondarono i paesi di Amato, Andali, Aieta, Casalnuovo, Vena, Zagarona e Carafa. Ai due figli di Reres, Giorgio e Basilio, furono concesse delle terre in Sicilia, affinchè le presidiassero contro le temute scorrerie francesi. Si stabilirono nei territori dell'illustre casa Cardona-Peralta, nelle proprietà dei canonici di San Giovanni degli Eremiti e in quelle del monastero di Fossanova, fondando rispettivamente, in prossimità delle rovine di antichissimi casali, Contessa Entellina, Mezzojuso e Palazzo Adriano. Un altro gruppo si stabilì nei territori del feudo dell'Arcivescovo di Monreale e fondò l'odierna Piana degli Albanesi . Altri albanesi si erano stabiliti nelle Puglie, nei territori che re Ferrante aveva donato a Scanderbeg nel 1461; in quelle terre fondarono i paesi di Faggiano, Martignano, Monteparano, Roccaforzata, San Giorgio, San Martino, San Marzano, Sternatia, Zollino, Chieuti, Casalnuovo, Caslvecchio, Campomarino, San Paolo, Portocannone. Più tardi, verso il 1470, si stabilirono a Santa Croce di Magliano, e solo nel 1540 fu fondata Ururi, oggi in provincia di Campobasso . Il grande esodo avvenne tra il 1468 e il 1479 . Con la caduta di Croia, Alessio e Scutari (1478-1479) l'Albania perde la libertà, e diventa dominio dei turchi che, eserciteranno il loro potere fino al 1912.Fu lo stesso Scanderbeg, in punto di morte, ad invitare suo figlio Giovanni a lasciare l'Albania e a rifugiarsi nei suoi possedimenti pugliesi, da dove, una volta raggiunta la maggiore età avrebbe dovuto tentare di riconquistare l'Albania. Secondo Kol Kamsi10 Giovanni e sua madre Donica espatriarono non prima del 1474 e si rifugiarono nelle Puglie tra il 1476 e il 1479. Giovanni cercò di mantener fede alla promessa fatta al padre ed organizzò una spedizione contro i turchi. Sopraffatto, però, dallo strapotere nemico si ritirò in Puglia dove sposò la figlia del despota di Serbia Brancovich. Dal matrimonio nacque Costantino, vescovo di Isernia, Giorgio Maria e Ferrante, che a sua volta fu il padre di Irina Scanderbeg, che sposò Pietro Antonio Sanseverino principe di Bisignano. Assieme a Giovanni o, comunque, in quello stesso periodo molte altre comunità albanesi approdarono in Italia, "le più nobili se ne andarono al regno di Napoli" . Se fossero o meno i più nobili, la storia non ci ha tramandato notizia certa, vero è che nel Regno di Napoli trovarono approdo il maggior numero di espatriati. In Calabria si stabilì la colonia più consistente e qui vennero fondati il maggior numero di casali. I motivi che determinarono la generosa ospitalità offerta ai profughi albanesi furono molteplici, innanzittutto l'amicizia che legava Scanderbeg e il suo popolo ai governanti del Regno, accanto a ciò ci furono motivi politici, economici e sociali. Nel Regno di Napoli permaneva un'organizzazione politica di tipo feudale, caratterizzata dal latifondo sfruttato da colture estensive scarsamente produttive e che richiedeva grandi quantità di mano d'opera. Questo tipo di organizzazione, abbandonata nelle altre parti d'Italia dove si era andato affermando un processo di ammodernamento agrario, provocava la crisi economica e sociale che attanagliava il Regno di Napoli in generale e la Calabria in particolare. Fiaccata dalle lotte tra angioini e aragonesi nell'ultimo quarto del secolo XV, la Calabria presentava vivi segni di decadenza civile ed economica, a cui non erano estranee cause di ordine naturale, come la pestilenza ed il degrado delle contrade, con relativo spopolamento, dovuto alla recrudescenza del paludismo, originato a sua volta dall'intensificazione dei disboscamenti per vendita di legna, con conseguenti frane e alluvioni. A completare il quadro desolante del mezzogiorno d'Italia, non di rado si dovevano registrare grandi scosse di terremoto, come quello disastroso che nel 1456 provocò gravi danni e migliaia di vittime. I feudatari locali, in particolar modo, il Principe di Bisignano e i Domenicani di Altomonte accolsero le colonie albanesi facilitandone il loro stanziamento. In questo modo vennero ripopolati casali semiabbandonati o completamente deserti e venne favorita la nascita di nuovi. Risalgono a questo periodo le nascite dei casali di San Demetrio, Macchia, San Cosmo, San Giorgio, Vaccarizzo e Spezzano. Poco più tardi altri profughi fondarono i casali di Plataci, Castroregio, Civita, Porcile (oggi Ejanina), Frascineto, Acquaformosa, Lungro, Firmo, San Basile, Cavallerizzo, Cerzeto, San Giacomo, San Martino di Finita, Farneta, Mongrassano, San Benedetto Ullano, Marri, Falconara Albanese ed altri ancora. E' certo che la costituzione delle comunità albanesi, in senso proprio, non è avvenuta d'un colpo, con uno spostamento netto e definitivo, ma è il risultato di un lungo e tormentato processo, che comprende passaggi senza stanziamento attraverso centri diversi, rapido insorgere e rapido deperire di agglomerati provvisori, assorbimento in comunità indigene di stanziamenti albanesi minoritari. Solo gradatamente vengono alla luce comunità albanesi con una propria identità. E' facile notare come gli albanesi fuggiti dalla loro patria non abbiano costruito i loro casali vicini l'un l'altro, bensì in luoghi tra loro discontinui e decentrati. Diverse sono le congetture relative al perchè di questa distribuzione degli stanziamenti . L'ipotesi più probabile è che essi dovettero abbandonare le coste perchè allora erano infestate dalla malaria e perchè quelle zone erano spesso teatro di razzie da parte dei pirati saraceni. Dopodiché si inoltrarono nell'interno continentale e si arroccarono, generalmente, in luoghi montagnosi, spesso impervi, ma dove trovavano spazio di vita. Sparsi in questo territorio vennero accolti dai feudatari, secondo gli usi ed i costumi vigenti, in condizioni di vassallaggio. Anche dopo essersi insediati gli albanesi mal sopportavano la prepotenza baronale e, se subivano un torto o anche per non sottostare alle imposizioni fiscali (in particolar modo il focatico, la tassa di famiglia), bruciavano i loro pagliai e prendevano le strade di altre terre . Girolamo Marafioti nel 1601, a proposito delle abitazioni degli albanesi diceva: "... non tengono case fabricate ma tugurij pastorali, e capanne di tavole". Solo tra la fine del 1500 e gli inizi del 1600 si possono contare un certo numero di comunità albanesi con una propria stabilità ed una specifica identità etnica e religiosa.

    Gli albanesi in terra di Calabria

    Quindi senza denaro, senza protezione, e senza incoraggiamento, come potevano coltivare i terreni, abbracciare le arti ? Questa domanda si poneva nel secolo scorso Angelo Masci. Ed infatti gli esuli arrecarono non pochi problemi di ordine pubblico ai governanti di quel tempo. La questione posta dal Masci era un tentativo di confutare le posizioni di chi considerava gli albanesi gente d'armi, refrattari ad ogni imposizione, alla ricerca della libertà ad ogni costo, anarchici talvolta. In battaglia, come si è visto, l'albanese non aveva rivali, lo storico Baldacci riprendendo un testo del 1308 così fotografava la gente albanese: "L'Albania ha uomini bellicosi, sono infatti ottimi cavalieri e lancieri. Hanno gli occhi con una pupilla che gli consente di veder meglio la notte che il giorno". Questa reputazione gli albanesi la portarono anche nel Regno di Napoli. Carlo Maria Occaso nel secolo scorso così descriveva gli albanesi stanziatisi in terra di Calabria: "Semi-barbari, cattivi agricoltori, con linguaggio diverso, tenacissimi dei loro riti e costumi, non poterono affratellarsi con gli altri antichi abitanti, e spesso fra individui e individui delle diverse nazioni sorgevano sanguinarie risse. Non conoscevano differenze di ceti, e tutti raccolti in tuguri di paglia esercitavano la pastorizia. Bentosto si diedero al ladroneggio e, disertando le campagne e aggredendo le persone, si resero un vero flagello, talchè si vide il bisogno di implorare soccorso dalle autorità superiori". Infatti nel 1509 la città di Cosenza scrisse ad Ugo Moncada, governatore della Calabria e luogotenente del re Cattolico, una lettera dal tono seguente: "Li albanesi greci et schiavoni quali habitano per li burghi, casali et lochi aperti del regno fanno molti furti e arrobi V.S.I. provveda, che tutti intrino ad habitare dentro le terre murate e per nullo tempo possano habitare fora d'esse terre". L'amministrazione vicereale fu inflessibile, non consenti che gli albanesi facessero vita nomade e intimò loro di ritirarsi in terre murate. Per reprimere poi il brigantaggio da essi praticato, nel 1564 decretò che nessun albanese potesse andar a cavallo con selle, briglia, speroni e staffe, nè che potesse portare armi, sotto la pena di cinque anni di galera . Altri bandi vietarono agli albanesi anche di potersi recare nelle città con i loro cappelli tradizionali. Queste misure restrittive da un lato arginarono i fenomeni di brigantaggio, di cui si erano resi colpevoli gli albanesi, dall'altro crearono delle isole razziali impermeabili alle influenze esterne. In questo modo gli albanesi mantennero i loro usi, i loro costumi, la loro lingua, il loro rito fino ad oggi.

    L'etnia e la cultura contadina attraverso i Murales

    E’ diventata ormai una consuetudine in molti paesi, specie in quelli meridionali, allestire musei etnici e/o di arte contadina. Ad Acquaformosa tutto questo non sussiste, qui si è preferito non la staticità e l’angustia di un museo bensì la luce, l’area , ma soprattutto il colore. Così la nostra eticità e la nostra cultura contadina italo-albanese è stata rappresentata attraverso la tecnica pittorica del murales. Sono circa una ventina le scene pittoriche che adornano le vie del paese eseguiti da artisti provenienti dalle diverse province meridionali. I quali hanno raffigurato : il costume albanese,i vecchi mestieri, scene campestri come l’aratura; la mietitura ; la vendemmia ecc. Ma principalmente hanno evidenziato il nostro modo di essere arberesce.

    Tradizioni e folclore

    I costumi, le tradizioni, il rito e la lingua sono una ricchezza che gli acquaformositani hanno mantenuto inalterati nel tempo. Di generazione in generazione i giovani del paese, si sono impegnati alla fondazione di gruppi folcloristici per salvaguardate e trasmettere i valori etnici originali. Il gruppo folcloristico di Acquaformosa, nato nel 1986, si chiama "Shkëmbi"; celebre è la loro ricerca di canti e danze albanesi ed italo-albanesi. costume di lutto. Tra le più importanti manifestazioni religiose si ricordano: la festa di Santa Maria del Monte, 20 luglio; la festa di San Giovanni Battista, l'ultima domenica di agosto; durante il periodo di Carnevale si celebrano le "Vallje", ballo con canti inneggianti alla vittoria di Skanderberg sui turchi, e nel primo venerdì di marzo, i ragazzi in gruppo, suonando dei campanacci, beffeggiando la gente del paese evidenziandone pregi e difetti. La festa più importante è quella di Pasqua, nel giorno di quaresima si intonano le "Kalimere'", cantilene drammatizzate che rievocano la Passione di Cristo; e nella solenne Pasqua viene annunciata dalle note del canto sacro in lingua greca "Kristos Anesti", che significa Cristo è risorto, intonato in coro per le chiese e le strade del paese.

    Costume

    Acquaformosa conserva l'abito arbëreshë, nelle sue tradizionali differenze per l'uso ed l'evento. Le varie tipologie dei costumi sono: costume di mezzafesta con gonna kamizolla e scialle intorniato da gallone dorato, costume "kandusha" della ragazza in attesa di marito, costume di lutto, costume ragazza da marito, e il costume nuziale con il Diadema nuziale, keza, il gallone, galuni, che circondano le spalle.

    Come si raggiungono i Pini Loricati

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    Cima Timpone del Pino, si nota il maestoso piano di Campolongo

    Dalla chiesa di Santa Maria del Monte, proseguire per il rifugio "Piano del Faggio" e quindi proseguire in direzione Campo Longo, dopo circa 1,5 km sulla sinistra della strada si nota una cava di sabbia, posteggiare l'autovettura, e prosseguire su un sentiero fino alla cima della collinetta . Oltre allo splendido spettacolo del piano di Campolongo si può ammirare la bellezza dei Pini Loricati più giovani del Parco del Pollino.

    Personaggi illustri
    • Simeone Orazio Capparelli (1852-1940), poeta.
    • Annunziato Capparelli (1811-?), medico, combatté valorosamente con i garibaldini.
    • Giovanni Mele (1885-1979), primo Eparca della diocesi bizantina di Lungro.
    • Vincenzo Matrangolo (1913-2004), papàs di rito greco-bizantino, scrittore e teologo.



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    Edited by Isabel - 15/11/2014, 08:41
     
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